In Siria il Sultano Erdogan sfida lo Zar Putin: è la guerra della spartizione
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In Siria il Sultano Erdogan sfida lo Zar Putin: è la guerra della spartizione

I militari russi e quelli di Bashar al-Assad stanno conducendo una dura offensiva nell’ultima roccaforte ribelle di Idlib. Offensiva definita “criminale” da Ankara

Sfollati dalla provincia di Idlib
Sfollati dalla provincia di Idlib
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

3 Febbraio 2020 - 17.04


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Dalla guerra civile alla guerra per procura. E ora la guerra “diretta”. Il campo di battaglia è sempre lo stesso. Un Paese ridotto a un cumulo di macerie: la Siria. E in Siria il “Sultano” di Ankar, al secolo il presidente Recep Tayyp Erdogan, torna a sfidare lo “Zar” di Mosca, il presidente russo Vladimir Putin, grande sostenitore del regime di Damasco.

Il Sultano sfida lo Zar

La Siria, dove i militari di Putin e quelli di Bashar al-Assad stanno conducendo una dura offensiva nell’ultima roccaforte ribelle di Idlib. Offensiva definita “criminale” da Ankara che così ha deciso di intervenire anche su questo terreno di scontro, confermando così i suoi legami con una parte dei gruppi ribelli che sono passati sotto la sua protezione nelle campagne militari del nord, ad Afrin e nel resto del Rojava. Almeno sei soldati turchi e 30-35 siriani sono morti dall’inizio, pochi giorni fa, del nuovo dispiegamento voluto da Erdogan e la tensione è già così alta che proprio il Paese della Mezzaluna ha deciso di interrompere i pattugliamenti congiunti Ankara-Mosca nel nord-est, iniziati dopo l’invasione del Rojava, a ottobre. La decisione del governo turco è arrivata proprio in seguito all’uccisione, nella mattinata di lunedì, di almeno sei loro militari sotto le bombe del regime. Raid a cui Ankara ha immediatamente risposto con la propria artiglieria che, secondo fonti militari turche, ha ucciso tra i 30 e i 35 soldati di Damasco.  Si parla di 122 attacchi di artiglieria e 100 con tiri di mortaio su 46 bersagli dell’esercito siriano.

“Voglio dire alle autorità russe che il nostro bersaglio non siete voi, ma il regime. Non opponetevi”, ha avvisato Erdogan invitando gli uomini di Putin a non opporsi alla rappresaglia contro Damasco. Ma la decisione di aprire uno scontro sul campo con gli uomini di Assad compromette inevitabilmente i rapporti tra Ankara e Mosca. Non solo nella provincia di Idlib, ma anche sulla sponda est dell’Eufrate, dove le due potenze hanno fino a oggi collaborato. E la decisione di interrompere i pattugliamenti va proprio in quella direzione.

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“La Turchia ha risposto e continua a rispondere a questo attacco con forza. Non possiamo restare in silenzio mentre i nostri soldati vengono uccisi. Continueremo a chiederne conto”, ha detto Erdogan parlando alla stampa prima di imbarcarsi per Kiev, dove oggi partecipa all’Alto consiglio strategico tra Turchia e Ucraina. Parole simili a quelle pronunciate il 31 gennaio, quando ha ipotizzato l’intervento militare nella provincia di Idlib. Il presidente turco ha anche fornito alcune specifiche riguardo alla risposta militare: un attacco misto dell’artiglieria e di caccia F-16 che ha preso di mira “circa 40 postazioni” del regime di Damasco individuate dai servizi segreti. “Quelli che mettono alla prova la determinazione della Turchia con questo genere di attacchi capiranno di aver commesso un grave errore. Il nostro Paese è determinato a proseguire le operazioni per garantire la sicurezza del nostro popolo e dei nostri fratelli a Idlib”, ha concluso il “Sultano”, facendo riferimento ad alcuni gruppi ribelli e alle centinaia di migliaia di sfollati fuggiti dall’area degli scontri.

Solo nell’ultima settimana, riferisce Muhammad Hallaj, direttore del Coordinamento per la risposta alle operazioni in Siria, organizzazione vicina ad Ankara, sono 151mila le persone costrette ad abbandonare le proprie abitazioni e a dirigersi verso il confine turco a causa degli scontri. Secondo la stessa fonte, da inizio novembre, quando è ripresa l’offensiva governativa, gli sfollati sono in tutto 692 mila.

Da Mosca, però, accusano la Turchia di non aver fornito la posizione delle proprie truppe a Idlib, circostanza che ha poi causato l’uccisione dei soldati nei raid di Damasco: “Le unità turche – afferma il ministero della Difesa citato dall’agenzia Interfax – sono state spostate all’interno della zona di de-escalation di Idlib nella notte tra il 2 e il 3 febbraio senza avvertire la parte russa e sono finite sotto il fuoco aperto dai governativi contro i terroristi a ovest di Serakab”.  E’ la più grave crisi dal novembre 2015, quando un Su-24 russo venne abbattuto da un F-16 turco proprio lungo la frontiera con la provincia di Idlib. Adesso le forze governative hanno messo a segno una avanzata rapida nella provincia, sono a 3 chilometri da Sarabiq e a 17 dal capoluogo, e puntano a riconquistare i tratti autostradali della M5 Hama-Aleppo e della M4 Lattakia-Aleppo. La provincia è difesa da formazioni ribelli filo-turche, dal gruppo jihadista Hayat al-Tahrir al-Sham, legato ad al-Qaeda, e dal cosiddetto Partito turkmeno islamico, composto soprattutto da uiguri cinesi.

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La “Jalta siriana”

A Idlib, su Idlib, può naufragare la “Jalta siriana” messa in essere, con le vittorie sul campo, dal patto a tre stretto da Vladimir Putin, Hassan Rouhani e Recep Tayyp Erdoğan. Un patto che la resa dei conti finale voluta da Bashar al-Assad, e sostenuta da Russia e Iran, può saltare per l’uscita del “Sultano di Ankara”. Sia chiaro: all’autocrate turco il tema della tragedia umanitaria serve essenzialmente per difendere gli interessi geopolitici della Turchia in quell’area cruciale della Siria. 

E poi c’è un altro punto di rilevanza strategica: la Turchia può accettare che Bashar al-Assad resti al potere a Damasco, ma ciò che non accetterà mai è che un rais rimasto in piedi essenzialmente grazie all’appoggio militare di Mosca e Teheran (e degli Hezbollah libanesi), possa ergersi a vincitore della “partita siriana” e pretendere di rientrare nel grande giro mediorientale. Su questo, Erdogan è pronto a rompere l’alleanza con Russia e Iran. E per farlo intendere ha ordinato all’esercito di rafforzare la propria presenza nell’area a ridosso di Idlib.

Per Damasco riprendere Idlib significa di fatto chiudere la guerra civile e riprendere il controllo dell’autostrada M5 che dalla Giordania arriva in Turchia, fondamentale per le rotte di rifornimento, e della M4, che collega Aleppo a Latakia, città costiera roccaforte degli al-Assad, oltre che sede della base aerea russa di Hmeimim. La Russia intende ripulire del tutto il territorio, insieme all’Iran, Ankara invece ha fatto leva sulla costituzione Fronte di Liberazione Nazionale, una sorta di esercito irregolare, con il sostegno delle milizie jihadiste lì arroccate. Per assumere il controllo de facto del nord della Siria. 

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La posta in gioco

Annota in proposito, in un documento report per Ispionline, Eugenio Dacrema, Ispi associate research fellow: “Ma se è soprattutto la Turchia che dalla potenziale caduta di Idlib rischia di più – sia nella veste di sponsor, umiliato, dell’opposizione, sia in quella di paese rifugio per una nuova ondata di profughi – è il ruolo di mediatore quasi infallibile di Mosca che è ora sotto la luce dei riflettori. Da una parte i vertici russi sanno bene di non poter negare al regime una simbolica vittoria finale che solo la presa di Idlib può garantire. Assad ha bisogno di poter presentare all’opinione pubblica lealista la caduta dell’ultimo bastione dell’opposizione prima di sedersi, da una posizione di forza, a due tavoli ben più complessi: lo status finale nel nord-est e, soprattutto, la questione di Afrin e del triangolo Azaz-Al-Bab-Jarablous, occupati dalle forze turche tra il 2017 e l’inizio del 2018. A Mosca sanno che soprattutto quest’ultimo nodo sarà difficile da sciogliere e che il nord della Siria rischia di ritrovarsi nel lungo termine sotto protettorato turco, in una situazione simile al nord di Cipro, e che, proprio per questo, non possono negare ad Assad una vittoria “finale” ad Idlib. Ne va della credibilità del regime e, indirettamente, della credibilità di Mosca, che dall’intervento in Siria nel 2015 sta cercando di proporsi ai regimi autoritari del Medio Oriente come un alleato più affidabile e determinato degli Stati Uniti”.

E’ questa la vera posta in gioco a Idlib. Non la sopravvivenza politica del “macellaio di Damasco”, ma chi siede a capotavola nella spartizione della Siria, come della Libia. In gioco, è bene ricordarlo, non sono suggestioni imperiali ma interessi multimiliardari legati alla ricostruzione della Siria e alle ricchezze petrolifere libiche. 

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