Il terrorismo ci ha dichiarato guerra: bisogna adeguare le leggi
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Il terrorismo ci ha dichiarato guerra: bisogna adeguare le leggi

Non si tratta di stravolgere o rivoluzionare. Ma solo di dare più strumenti rispetto ad un fenomeno senza precedenti

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Diego Minuti Modifica articolo

19 Agosto 2017 - 14.44


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Silent leges inter arma, le leggi tacciono in tempo di guerra.
Anche se l’attribuzione resta in certa (Seneca? Cicerone?), mai come in questi giorni questa citazione latina sembra attualissima, perché ricorda a tutti, nessuno escluso, che se le leggi, da portatrici di certezze, impongono comportamenti e ne reprimono altri, ci sono momenti in cui devono fare i conti con inattese situazioni emergenziali davanti alle quali mostrano i limiti del tempo trascorso dalla loro adozione.
Le leggi dell’Occidente oggi si stanno dimostrando poco efficaci nel fronteggiare un fenomeno criminale – il terrorismo jihadista – che trova la sua ragion d’essere in una religione che, priva di gerarchie riconosciute, consente a tutti di interpretare e, in base alla convenienze proprie, di distorcere i testi sacri dell’islam indirizzando l’energia dei credenti in atti che privilegiano la violenza, partendo dal presupposto che chi crede in un Dio diverso o non crede in nessuno non merita perdono.
L’islam vincente, al di là dei numeri e delle prese di posizione di leader moderati o presunti tali, ha il volto di quei ragazzini che, a Barcellona, hanno seminato morte. Internet ha fatto anche questo, creando una schiera di automi che, imbevendosi di teorie radicali, hanno trovato sulla rete i modi per uccidere quanti più cristiani possibile.
Ma anche quanto più sciiti possibile.Davanti a questa follia, di difficilissima se non impossibile perimetrazione, l’Occidente sta reagendo, ma basandosi, per come giusto che sia, sul complesso delle leggi nazionali, figlie di secoli in cui il Diritto è stata, paradossalmente, la religione laica in cui quasi tutti i cittadini si sono riconosciuti.
Ma queste leggi ormai mostrano il logorio di un confronto, perso, davanti ad un nuovo profilo di criminale, il terrorista religioso che vede nei propri comportamenti la strada verso un paradiso fatto di vergini e datteri, anche se forse in pochi ci credono veramente.
Penetrare il tessuto della jihad è improbo se si seguono i canoni investigativi e di contrasto tradizionali, poiché non c’è stato ancora il tempo per azioni di intelligence tradizionali (come l’infiltrazione) e i terroristi catturati vivi non collaborano con gli inquirenti, sicuri come sono di avere fatto un altro passo verso il Jannah, il loro paradiso, sotto l’ombrello del garantismo occidentale.
E’ allora forse giunto il momento di adottare delle nuove misure legislative che accantonino, magari per un tempo determinato, le tutele di legge che i radicali islamici, dentro e fuori le carceri, sanno benissimo come sfruttare. Immagino che più d’uno, se non tutti coloro che hanno la pazienza di leggermi, storcerà il naso davanti a questa che potrebbe apparire come una deriva liberticida e comunque dettata da una situazione di emergenza.
Ma si deve avere il coraggio di riconoscere come tale la guerra che ci è stata dichiarata e quindi prepararvisi usando al massimo la potenzialità deterrente del nostro ordinamento. Il nostro Paese, lo ricordo ai più giovani, ha vissuto un periodo della stessa gravità agli inizi degli anni ’70 quando il terrorismo ce l’avevamo in casa e colpiva quasi quotidianamente seguendo uno schema preciso e affatto frutto delle scelte di cellule che non dialogavano tra di loro.
Lo Stato, l’Italia, la Repubblica avevano bisogno di nuove armi che le vennero concesse dalla legge numero 152 del 22 maggio del 1975, che recava ”Disposizioni a tutela dell’ordine pubblico” e che prese il nome dal guardasigilli che l’aveva promossa, Oronzo Reale. Tra le misure introdotte, il fermo preventivo, l’uso delle armi da parte di polizia e carabinieri in ordine pubblico. Un giro di vite che in molti contestarono e che si tentò di cancellare con un referendum abrogativo, sconfitto tre anni dopo con oltre il 76 per cento di no, a conferma che se si tratta di sicurezza alcune certezze vacillano.
Qui non si chiedono stravolgimenti o rivoluzioni, ma solo di dare a chi – lo Stato – ha la responsabilità di contrastare il fenomeno strumenti nuovi e più efficaci, anche in materia di regime carcerario cui sottoporre chi viene ritenuto colpevole di atti legati al terrorismo religioso.
Magari inasprendo l’isolamento per evitare il dilagare del contagio della radicalizzazione nelle celle che tanti attentatori suicidi ha regalato alla jihad.

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