Quella del Ku Klux Klan è una pagliacciata me comunque è un segnale preoccupante

Emerge un quadro politicamente e fors'anche eticamente desolante: la destra 'made in Usa' più retriva vede accrescere i suoi spazi, i suoi margini di visibilità

Manifestazione del Ku Klux Klan in Virginia
Manifestazione del Ku Klux Klan in Virginia
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Diego Minuti Modifica articolo

9 Luglio 2017 - 14.29


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Una cinquantina (ma anche se fossero stati di più il giudizio sull’accaduto sarebbe cambiato solo di pochissimo) di membri del Ku Klux Klan hanno protestato in Virginia, a Charlottesville, contro la rimozione di una statua che celebra il generale Robert E.Lee, che guidò le truppe della Confederazione nella guerra di secessione.
Una manifestazione resa ancor più folkloristica e pittoresca dal fatto che i manifestanti indossavano, in larga parte, le tuniche bianche ed i copricapo a punta che, nel secolo scorso, hanno reso tragicamente famoso il Klan, tra linciaggi ed incendi di case di neri.
Contro di loro si sono schierati degli anti-razzisti ed i contatti tra gli schieramenti sono diventati inevitabili, con la polizia che è dovuta intervenire, anche se con mano leggera.
Questa la cronaca, per il resto l’accaduto merita una riflessione perché, sebbene le odierne manifestazioni del Klan non meritino altro che un sorriso di pazienza e compatimento, la manifestazione di Charlottesville è comunque un segnale di come l’America rischi di subire un mutamento genetico nei bastioni della sua democrazia.
Il generale Lee, uscito dall’accademia militare di West Point, col massimo dei voti, era considerato, sino al momento della costituzione della Confederazione, uno dei più brillanti strateghi americani che però, da virginiano, decise di restare con gli Stati del Sud. Giusta o sbagliata che sia la decisione, Lee ancora oggi viene visto (e studiato) più come militare che come un criminale di guerra. E questo, in una certa ottica, dà un minimo di senso ad un monumento come quello di Charlottesville (ma non è il solo a Dixieland).
Certo, sposò una causa sbagliata, abbracciò le idee segregazioniste che la Confederazione pose alla base del suo progetto politico ed economico, ma è comunque entrato nella Storia pur se non dalla parte giusta.
Tanti anni fa ( non so se la querelle è proseguita in tempi più recenti) a Messina si discusse sull’opportunità di abbattere la statua che celebra il re Federico II – si trova davanti alla Passeggiata a mare, uno dei luoghi più belli del capoluogo dello Stretto – che, nel 1848, per reprimere un moto indipendentista, fece radere al suolo la città con un bombardamento di matrice politica (doveva servire da esempio) che, per ferocia, ha aperto la strada a quelli di Coventry e Dresda. Quel dibattito si spense nella ragionevolezza perché, sia pure responsabile di un atto violento contro la città, Federico II resta un personaggio storico, anche se per i messinesi, a distanza di secoli, è ancora ”re bomba”.
Questa digressione vuole soltanto sostenere che dalla Storia può fornire labili pretesti per portare avanti delle idee. La protesta contro la rimozione della statua del generale Lee è, appunto, un pretesto perché non credo che nella civile Charlottesville, città dall’altrettanto civile Virginia, siano in molti pronti a strapparsi i capelli non vedendo l’effige del generale sudista lungo la strada. Quel che, a mio avviso, appare evidente è che il Klan ha colto l’occasione dell’impetuoso soffiare del vento della destra per rialzare il capo, quasi a dire: ci siamo anche noi in questa America che ha scelto Trump. E lo stesso sembrano volere dire gli esponenti dei suprematisti bianchi che pure sono attivi sulla scena dell’America rurale da anni e che ora, chissà come mai, si sentono più liberi di mostrarsi per quello che sono, non mascherandosi dietro lo schermo della difesa dei diritti del singolo contro l’ingerenza dello Stato nella vita d’ogni giorno.
Una destra che comunque, volendola accreditare di un minimo di ideologia, non può riconoscersi nelle confuse ricette che il Presidente sta portando e che sembrano conseguenza di un orizzonte politico di cortissimo respiro, fortemente condizionato dalla propria storia personale, dal caravanserraglio familistico che lo circonda tra una figlia che siede in consessi ufficiali che non le appartengono, un figlio che intratteneva rapporti con personaggi molto/troppo vicini alla Russia, un genero che non altra qualifica meritoria che quella appunto di ”first son in law”.
Davanti a questo quadro politicamente e fors’anche eticamente desolante, la destra ‘made in Usa’ più retriva vede accrescere i suoi spazi, i suoi margini di visibilità, in un Paese che, mai come oggi, appare spaccato, certo più di quel che si possa pensare. Ma il pericolo è in agguato, perché la destra, per sua natura ed ad ogni latitudine, non ha mai saputo fermarsi, anche davanti ad un successo, reale o presunto. I sostenitori della supremazia bianca forse non capiranno sino a che punto sia lecito spingersi e la risposta dell’altra America, quella dei neri che si sentono ancora discriminati, potrebbe essere dietro l’angolo. La rabbia covata da secoli può nuovamente esplodere per un singolo episodio. Le rivolte della gente di colore sono spesso deflagrate per l’uccisione di un ragazzo per mano di un bianco o magari da un ‘fratello nero’ in divisa. E sono state cruente. E ce ne sono state altre con una motivazione più politica, come quella esplosa nell’agosto del 1965 a Los Angeles, quando il quartiere di Watts esplose sotto la spinta della popolazione di colore inferocita per l’assassinio di Malcolm X, peraltro per mano di un altro nero.

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