Crisi turca, problema europeo

Dalla crescita economica del primo decennio degli anni Duemila alle tensioni con i curdi e alla guerra in Siria. Storia di un declino con cui deve fare i conti anche il nostro Continente

Crisi turca, problema europeo
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5 Aprile 2016 - 12.42


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Gli ultimi sviluppi sulla questione della gestione dei migranti non bastano per inquadrare la critica situazione che si registra in Turchia e, più in generale, i rapporti e gli interessi che tengono unite Ankara e l’Europa. Come noto la Turchia è un Paese “anche europeo”, per la sua parte a ovest del Bosforo, ed è membro della NATO, come tutti gli Stati fondatori dell’UE. In quanto Paese “anche europeo”, vitale per la sicurezza del fianco sud-est dell’Alleanza Atlantica, e al contempo fondamentale poiché fa da ponte verso Medio Oriente e Asia, i suoi rapporti con l’Europa sono sempre stati stretti. Il trattato di adesione tra CEE (Comunità Economica Europea) e Turchia risale al lontano 1963. Successivamente, nel 1970, è stato firmato il Protocollo addizionale del Trattato di associazione. Bisogna però attendere fino al 1987 per la richiesta turca di adesione alla CEE, e quasi altri dieci anni, il 1996, per un’unione doganale.

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L’accordo per l’entrata in vigore di questa unione doganale ha sollecitato la crescita economica della Turchia. Un Paese che, probabilmente, la maggioranza degli europei credeva dedito al turismo per la magnificenza di Istanbul e delle sue coste sull’Egeo, e per il resto a un’economia semi-tribale di pastorizia casearia e fattura di tappeti sulle brulle montagne dell’Anatolia. Ma così non era. Dal 2001 al 2011, nonostante il carico della crisi dal 2008, il PIL della Turchia è cresciuto in media del 5,3% all’anno in termini reali. Nel primo trimestre del 2011 è aumentato dell’11% sull’anno precedente, una progressione maggiore di Cina e Argentina, in quell’anno i Paesi con maggior crescita. Quei numeri hanno portato l’economia turca al 16esimo posto nel mondo, con aspirazione a entrare tra le prime 10 posizioni – vale a dire al posto dell’Italia o subito dopo – nel 2023. E questo è il nodo del problema.

 Dal 1996 la pratica dell’ingresso della Turchia nell’UE si è via via arenata. Nel 2004 la Commissione Europea ha sollecitato la trattativa per l’adesione. L’Italia – per sua posizione sbocco naturale nel Mediterraneo e in Medio Oriente – ha spinto per l’ingresso della Turchia. Roma considera da sempre Ankara un ponte verso l’Islam, mostrando con ciò un senso politico, oltre che economico, mirato a fondare una comune “Casa Mediterranea” e ad attenuare in tal modo il possibile attrito con il mondo islamico. Le cose, però, non sono andate così.

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 La versione ufficiale per il dilungarsi infinito della trattativa di adesione della Turchia all’UE rimanda principalmente all’occupazione turca della parte nord di Ciproe alle violazioni dei diritti umani esercitate in più occasioni dal governo di Ankara. La ragione vera è però il blocco posto dalla Germania alla voce dell’Austria, di fatto mai uscita dall’ ”Anschluss” (annessione dell’Austria alla Germania nazista nel 1938 per formare la “Grande Germania”, ndr). Grazie all’adozione di un euro più debole del marco, con gli effetti di una indiretta svalutazione, la Germania aveva già messo alle corde la Francia e l’Italia, suoi maggiori concorrenti manifatturieri in Europa, espandendosi così nel mercato europeo e in quello globale. L’ingresso nell’UE della galoppante Turchia avrebbe intaccato il primato tedesco in Europa. Motivo per cui i negoziati dovevano essere ostacolati.

Senza l’adesione all’UE, la sola unione doganale non garantiva però sufficiente mercato alle merci turche. Così Ankara ha rivolto le proprie esportazioni verso l’aera MENA (Medio Oriente e Nord Africa), spostando anche i suoi progetti politici in questa direzione. Al contempo, sganciandosi da Europa e NATO, ha stretto accordi energetici con la Russia. Mosca ha accolto positivamente il nuovo sbocco commerciale offertole dalla Turchia, occasione che le ha permesso di mettere in sordina le tensioni con le popolazioni turcofone delle ex repubbliche sovietiche, compreso lo scottante dossier del Nagorno Karabach. Questa filiera di buone relazioni centroasiatiche ha portato all’aggregazione della Cina, con la Turchia come terminale dei commerci verso l’Europa.

Questa dislocazione geopolitica è stata alla base della rottura dei rapporti tra il presidente Recep Tayyip Erdogan e il suo ex alleato Fethullah Gulen ,anch’egli islamista ma uomo degli Stati Uniti, con cui prima i rapporti erano invece idilliaci. Da questo contrasto dipendono buona parte degli attuali problemi e pericoli a cui sta andando incontro la Turchia.

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Con l’occhio rivolto verso Medio Oriente e Nord Africa la Turchia non era più seconda tra le prime economie del mondo, ma possibile leader dei Paesi più arretrati e in un’area di permanente conflitto. Sotto l’enorme spinta della sua crescita economica, sono così cresciuti enormemente anche gli appetiti politici. Nell’area MENA la Turchia poteva divenire il deus ex machina che tutto muove e porta a proprio vantaggio. Senza dimenticare che quest’area le era del tutto congeniale, corrispondendo all’antico dominio dell’Impero Ottomano. Il primo segnale in questa direzione Ankara lo aveva lanciato a fine maggio 2010 con la missione della “Freedom Flotilla” verso Gaza, episodio che innescò uno scontro a fuoco con le forze di sicurezza israeliane (9 morti) e tensioni diplomatiche tra Ankara e Tel Aviv.

Da quel primo approccio verso l’espansione, si è poi giunti alle ingerenze in Egitto e nel rovesciamento dell’ex dittatore libico Gheddafi, il sostegno alla Fratellanza Musulmana e l’alleanza con i regni del Golfo nel finanziare e supportare milizie jihadiste dalla Libia alla Siria, per far cadere regimi e espandere la propria influenza.

Ma già dall’azione di “Freedom Flotilla” Erdogan si è alienato l’appoggio di USA e Regno Unito, da una parte, e dall’altra di Russia (da sempre pro-Israele) e Cina (nemica dell’instabilità che danneggia i commerci). Ovviamente anche l’Iran si è preoccupato molto per l’asse tra Fratelli Musulmani in Egitto, Turchia, Emirati e Regni del Golfo. Ma l’Iran era sotto sanzioni, e uno dei maggiori errori di Erdogan è stato quello di contare indefinitamente su questo isolamento. Il presidente turco ha rafforzato la propria posizione contro Gulen trattando inizialmente con i curdi in vista dell’“avventura siriana”.

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Le necessità economiche sono così state progressivamente sormontate dalla smodata ambizione e dalla convinta furbizia di Erdogan. Ma il presidente aveva sbagliato i suoi conti. Ha creduto che una Russia già impantanata nel conflitto nell’est dell’Ucraina non potesse assumersi anche il problema siriano. Non ha calcolato che l’Iran potesse sdoganarsi con l’accordo sul nucleare, e quindi mobilitare i suoi Pasdaran e il movimento sciita libanese Hezbollah in appoggio al governo siriano di Bashar Al Assad.

Sostenendo in Egitto i Fratelli Musulmani non ha calcolato la preoccupazione della Cina, impegnata nei lavori di allargamento del canale di Suez nella sua politica per unire via mare Europa, Africa e Asia. E non ha previsto il colpo di mano del generale Abdel Fattah al Sisi. Erdogan ha così pensato di poter coinvolgere a forza la NATO abbattendo un Su-24 russo al confine con la Siria. Ma anche qui ha sbagliato i conti. La NATO tutto poteva volere tranne che uno scontro con la Russia, per appoggiare poi un membro incontrollabile come la Turchia.Allo stesso modo, con l’obiettivo di rinsaldare la propria posizione con una guerra interna, Erdogan ha sbagliato i conti attaccando i curdi. Con quella mossa ha vinto le ultime elezioni ma ha perso la guerra. I curdi del PKK (Partito dei Lavoratori del Kurdistan) rispondono colpo su colpo alle offensive con attacchi mirati e attentati ed entro un anno potrebbero avere forze sufficienti da scatenare una guerra civile.

Inoltre, sul fronte siriano i curdi dell’YPG (Unità di Protezione del Popolo), stretti alleati del PKK turco ma finanziati e armati dagli USA hanno resistito ai continui bombardamenti turchi, hanno proseguito nel combattere Stato Islamico e qaedisti e recentemente hanno proclamato la federazione dei loro tre cantoni proprio sotto la frontiera turca, e a ridosso del territorio curdo di Turchia, cui potranno fare da fondamentale retroterra e rifornimento. Dal Rojava (la regione curda situata nel nord-est della Siria) avvieranno la federazione con il Kurdistan iracheno e, una volta stabilizzata la situazione con le trattative di Ginevra, saranno intoccabili – pena sanzioni e interventi internazionali – e realizzeranno il peggiore incubo per Erdogan.La Turchia è dunque ormai un Paese in destabilizzazione e in grave pericolo. L’Europa di fronte a ciò non può restare indifferente. La Turchia è la vitale cerniera dell’Europa con il Medio Oriente e con l’Asia, è il punto di passaggio centrale delle rotte energetiche e di quelle commerciali della Nuova Via della Seta. È un Paese fondamentale in particolare per l’Europa Meridionale che ha come unica via di sopravvivenza l’espansione commerciale verso il Mediterraneo, il Medio Oriente e l’Asia.

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Il problema è che in Turchia non si vede un’alternativa interna a portata di mano. Le forze più potenti in campo sono Erdogan e il suo partito islamista AKP (Partito per la Giustizia e lo Sviluppo), l’esercito, che è anche una potenza economico-sociale, e l’ampia rete politica di Fetullah Gulen. Quest’ultimo, essendo “uomo americano”, non favorirebbe certo quel ruolo di cerniera della Turchia in favore dell’Europa. L’esercito ha già governato a lungo nei vari periodi di dittatura militare. E una dittatura non è la soluzione ottimale per l’apertura a nuove prospettive diplomatiche ed economiche. A meno che l’esercito non esprima un uomo di levatura geopolitica al pari dell’egiziano Al Sisi.

Il partito di governo AKP dovrebbe pertanto andare oltre Erdogan, lavorare su una nuova leadership e avviare una profonda revisione di principi e obiettivi per adeguarli al ruolo vitale destinato al Paese. Un ruolo che, ovviamente, non è quello di dominare Nord Africa e Medio Oriente, ma continuare a prosperare sfruttando la propria forza industriale e la propria posizione.Possiamo dubitare che accada. Il pericolo alle porte è doppio: se la Turchia rischia la guerra civile, l’Europa rischia di perdere l’ennesima occasione. A pagarne le conseguenze per prima sarebbe l’Italia con i suoi progetti di sviluppo nell’area del Mediterraneo.

Fonte: LookoutNews

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