Mandela e i figli della mezzanotte

Diciannove anni fa Madiba riuscì a liberare il suo popolo dalle catene e costruire una speranza. In una notte cambiò la storia [Flavio Fusi]

Mandela e i figli della mezzanotte
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7 Dicembre 2013 - 20.04


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I “figli della mezzanotte” oggi hanno 19 anni. Nacquero nelle ore notturne del 27 aprile 1994, quando nelle città e nelle township del Sudafrica si alzava la bandiera arcobaleno della nuova nazione: libera, democratica e uguale per tutti i cittadini. Vennero alla vita in anguste baracche o in poveri ospedali per neri, e le loro giovanissime madri vollero chiamarli Freedom (“libertà”) e Pride (“orgoglio”) e Nelson: come il grande padre che sarebbe diventato presidente.

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Ce li ricordiamo quei giorni, e -prima di quei giorni – quegli anni: alle cinque del pomeriggio Johannesburg si svuotava. I bianchi sbarravano negozi e uffici e fuggivano a chiudersi nelle loro ricche ville suburbane, vigilate in armi, circondate da alti puri di pietra. E torme di diseredati neri, provenienti dai ghetti, invadevano la città spenta, affollavano le strade silenziose, bivaccavano fino all’alba tra i simboli dell’opulenza, dell’arroganza e della separazione.

Oggi i “figli della mezzanotte” possiedono il loro Paese: Johannesburg come Soweto, Pretoria come Sharpeville. No, non è il Paese ideale. Il Sudafrica di oggi è una grande nazione piagata dalla miseria, assediata dalla violenza, strangolata dalla corruzione. I politici sono rapaci, nelle miniere si muore di fatica e i giovani non hanno futuro. Non è davvero il sogno di Nelson Mandela. Ma questo poteva fare – e ha fatto – il vecchio Madiba: liberare dalle catene e costruire una speranza. Lasciare una eredità pura che i suoi figli, i suoi troppi eredi, sono liberi di vigilare o di tradire.

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Il “lungo addio” che il Sudafrica riserva al padre della patria è nello stesso tempo straziante e retorico. Nei prossimi giorni verranno ad inginocchiarsi davanti al feretro tutti i grandi del pianeta. Alcuni di loro sono mediocri, altri indegni. Tutti cercano di accreditare davanti al pubblico di casa un proprio Mandela “privato.” Come ha tentato di fare il segretario di stato americano Kerry, invocando lo spirito pacificatore del leader sudafricano come nume tutelare di una sempre più improbabile pace tra israeliani e palestinesi.
Vuote parole: Nelson Mandela non era un “pacifista”. Contro uno dei regimi più sanguinari e osceni della storia moderna aveva scelto di praticare l’ intelligenza della lotta politica, l’ indulgenza del perdono, ma anche l’ intransigenza della risposta armata. In Sudafrica non si trattava di “fare la pace” tra Neri e Bianchi, ma di strappare il Paese agli usurpatori colonialisti.

E la terribile prigionia inflitta nella cella di Robben Island resta una colpa non solo dei padroni afrikaner, ma del mondo intero, che per 27 lunghi anni preferì predicare la pace, fare affari con gli aguzzini, e guardare altrove. La grandezza di Mandela fu anche nella sua semplicità. L’ addio che il mondo gli ha destinato non è né semplice, né sobrio. Il pianto privato ci rivela il profondo dolore di un popolo. Il pianto pubblico nasconde forse qualche senso di colpa che la storia di questi anni vittoriosi non è riuscita a cancellare.

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