L’Islanda ci ripensa e torna al liberismo

Il crack economico del 2008. La scelta di fallire per salvare lo stato sociale. La paura di entrare nell’Europa dell’austerità voluta dalla sinistra. L'analisi di un'esperta.

L’Islanda ci ripensa e torna al liberismo
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17 Maggio 2013 - 19.32


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di Giovanna Carnevale

Dopo aver fatto parlare di sé come modello economico alternativo che preserva lo stato sociale dalle ripercussioni negative del capitalismo finanziario, l’Islanda torna nelle mani di una classe politica conservatrice e neoliberista. Le elezioni legislative del 27 aprile hanno dimostrato che la maggioranza degli islandesi non apprezza la ricetta economica del centro-sinistra per risollevare il Paese dalla crisi. L’ex coalizione di governo composta da socialdemocratici e verdi, infatti, è uscita pesantemente sconfitta dalle recenti consultazioni popolari, raggiungendo in totale poco più del 22% dei voti e perdendo 14 seggi nell’Althingi (il parlamento islandese). A trionfare, invece, sono stati i progressisti (di centro-destra) con il 24,43% dei suffragi e il partito per l’indipendenza con il 26,7%.

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Dopo solo una legislatura all’opposizione, i conservatori riprendono la guida dell’Islanda promettendo la riduzione del debito e il taglio delle tasse. Ma se nel 2008 il Paese ha vissuto quella che l’agenzia di rating Moody’s non ha esitato a definire “una delle undici catastrofi più spettacolari della storia”, è stato proprio a causa della loro decennale politica irresponsabile e solidale con gli interessi della casta finanziaria.

La deregolamentazione del settore finanziario messa in atto dai governi Oddsson, leader del Partito per l’Indipendenza e primo ministro dal 1991 al 2004, ha reso per anni l’Islanda un paradiso fiscale per molti investitori esteri, attratti dai bassi tassi di interesse praticati dai suoi tre principali istituti di credito. La politica di centro-destra fondata sulla fede neoliberista ha “permesso a interessi privati di imporre regolamentazioni pubbliche che hanno prima gonfiato la sfera finanziaria, poi l’hanno sganciata dal resto dell’economia e, alla fine, ne hanno provocato l’implosione”. Negli anni precedenti alla crisi, la grandezza del settore bancario islandese aveva raggiunto una grandezza pari a undici volte il Pil del Paese. Ma nel giro di due settimane dell’ottobre 2008, poco dopo il fallimento della Lehman Brothers negli Stati Uniti, lo scoppio della bolla finanziaria ha fatto crollare gli istituti di credito e riversato un enorme debito sulle casse dello Stato. Il governo guidato da Geir Hilmar Haarde è stato accusato di cattiva gestione della crisi e costretto alle dimissioni dalle continue proteste popolari.

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La nuova amministrazione di socialdemocratici e verdi, retta da Jòhanna Sigur?ardóttir, ha avuto risonanza nei media internazionali per il tentativo non ortodosso di arginare le conseguenze del collasso finanziario. Piuttosto che sacrificare l’intero stato sociale nel ripagare il debito, i tre principali istituti di credito islandesi sono stati divisi in vecchi e nuovi: i primi, che operavano all’estero, sono stati lasciati fallire; i secondi sono stati nazionalizzati e hanno continuato la loro attività in Islanda. Le banche hanno dovuto accettare una riduzione del 40% sui tassi di interesse e, per i proprietari di case più colpiti, una parte del debito è stata cancellata. Controlli rigorosi, inoltre, sono stati applicati su tutti i capitali in fuga dall’isola, in modo da evitare che nuove speculazioni potessero ricondurre l’Islanda sul sentiero di un arricchimento tanto facile quanto rischioso.

Grazie al prestito di 2,1 miliardi di euro del Fondo monetario internazionale (Fmi), l’Islanda ha potuto riattivare il suo circuito economico, dando la priorità alla conservazione dello stato sociale. Secondo il rapporto 2012 dell’Fmi, «nella progettazione del consolidamento fiscale, le autorità hanno cercato di proteggere i gruppi vulnerabili, soprattutto con l’introduzione di un’imposta sul reddito più progressiva, e concentrandosi sui tagli alla spesa nei settori in cui avrebbero potuto esserci guadagni di efficienza, creando così uno spazio per preservare le prestazioni sociali. Di conseguenza, quando è iniziata la compressione delle spese nel 2010, la spesa per la protezione sociale ha continuato a crescere in percentuale al Pil, compresa quella estranea alle indennità di disoccupazione». Rispetto agli altri paesi europei, l’Islanda sta riemergendo dalla crisi a un ritmo più veloce: nel 2012 l’economia è cresciuta dell’1,6%, e il tasso di disoccupazione che due anni fa era vicino al 7% si è abbassato ulteriormente fino al 4,7% attuale. Il Paese, inoltre, è in una buona posizione per ripagare il debito contratto con il Fondo monetario internazionale.

Gli islandesi, però, non sembrano soddisfatti e, bocciando le misure del centro-sinistra, fanno crollare in Europa il mito nordico di un approccio alternativo alla crisi. Non c’è dubbio che a influire sul risultato elettorale, oltre al malcontento per alcune misure di austerità imposte dal Fondo Monetario Internazionale, sia stata la prospettiva dell’entrata nell’Unione Europea, voluta dai socialdemocratici. L’euroscetticismo, già diffuso in un Paese che per tradizione storica e posizione geografica è abituato all’isolazionismo, è stato senz’altro incrementato dal modo in cui l’Europa ha gestito la crisi bancaria a Cipro. Come quest’ultimo, anche l’Islanda possedeva un sistema creditizio sviluppato sulla capacità di attirare capitali esteri e cresciuto in modo sproporzionato rispetto all’economia reale. Ma dopo il fallimento delle banche, non essendo membro Ue l’Islanda ha potuto gestire autonomamente la politica monetaria, deprezzando la sua krona fino al 50% rispetto all’euro. Il carico fiscale che gli islandesi hanno dovuto subire è stato sicuramente minore di quello che grava ora sugli abitanti di Cipro. Ma gli inconvenienti, comunque, non sono stati del tutto assenti: la pesante inflazione generata dalla svalutazione del tasso di cambio ha fatto salire il costo della vita, rendendo quasi inaccessibili le rate immobiliari. La soluzione proposta dai socialdemocratici è stata quella di aderire all’euro per avere più stabilità monetaria. Ma la possibilità di subire gli imperativi dell’Europa spaventa gli islandesi: piuttosto preferiscono l’adozione della corona norvegese, proposta dal progressista David Gunnlaugsson.

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La vittoria del centro-destra ridisegna la posizione dell’Islanda ai margini politici dell’Europa: il cammino intrapreso dai socialdemocratici verso un avvicinamento a Bruxelles è invertito con una scettica retromarcia. Una scelta, questa, che non migliorerà neanche i rapporti con gli Stati Uniti, già indeboliti dopo che l’isola aveva addebitato le colpe della crisi proprio al governo a stelle e strisce, e chiesto aiuto alla Russia per risollevare la propria economia. Nel frattempo, però, l’Islanda cerca un nuovo alleato nella Cina: il trattato di libero scambio firmato il 15 aprile tra Reykjavik e Pechino rafforza i contatti già presenti e segna le basi per una cooperazione commerciale. Se il valore economico dell’accordo è sicuramente maggiore per l’Islanda, che possiede una piccola economia fondata prevalentemente sulle esportazioni di pesce e alluminio, dal punto di vista geopolitico il trattato assume grande rilevanza per la Cina, che mira a sfruttare lo scioglimento dei ghiacciai in atto nella regione artica per ottenere un appoggio strategico che la avvicini all’Europa.

insegna Scienze politiche e relazioni internazionali all’università “La Sapienza” di Roma
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