Donne arabe dall’harem alla piazza

Nuovo ruolo politico delle donne nel mondo arabo. Sempre più presenti nei luoghi di lavoro, lontane dai centri di potere. Tenendo a mente gli abusi di Piazza Tahrir.

Donne arabe dall’harem alla piazza
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15 Dicembre 2012 - 09.52


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di Sofia Zavagli

“La parola harem […] era una sottile variazione della parola haram, ciò che è proibito. Era l’opposto di halal, ciò che è permesso. L’harem era sia lo spazio privato sia le regole che lo governavano. Inoltre, Yasmina aggiunse, non ha bisogno di mura. Una volta che venivi a conoscenza di ciò che era proibito, portavi l’harem con te. Lo avevi in testa, inciso sulla fronte e sotto la pelle. L’idea di un harem invisibile, una legge tatuata nella mente, era per me terrificante”.

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L’immagine offerta dalla scrittrice Fatima Mernissi nel suo “La terrazza proibita. Vita nell’harem”, ben annuncia un tema quanto mai odierno: lo spazio e la questione di genere nei paesi arabo-islamici.

Parallelamente ad una storia del mondo arabo realizzata, vissuta e scritta dagli uomini – uomini sono i califfi, i sultani, i vizir, i re, i soldati, i presidenti e i dittatori- corre un’altra storia, quella delle donne e della loro lotta contro le barriere.

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Fino a qui pochi avrebbero da obiettare che la storia delle donne in Occidente sia diversa. Tuttavia è innegabile che le restrizioni spaziali alla libertà delle donne per il fatto di essere donne abbiano subito un duro colpo in questa parte del mondo.

Ma quindi cos’è che in Medio Oriente fa inceppare quel meccanismo di costruzione di un’identità femminile libera? Troppo spesso ci si è lasciati andare ad elucubrazioni dal sapore orientalista (per non dire colonialista) sulla contrapposizione apparentemente incolmabile fra “noi” e “loro”. Noi abbiamo avuto l’Illuminismo, viviamo in società secolari, noi abbiamo esultato con le femministe per poi esserne nauseate. E loro? Dove erano e cosa facevano mentre noi lottavamo per i diritti politici e civili? La Mernissi risponderebbe che era impegnata a valicare i confini fisici e mentali dell’harem, mentre Virginia Woolf argomenterebbe che nessuna donna araba diventerà Shakespeare o Presidente fino a che non avrà una “stanza tutta per sé”.

Ma bisogna stare molto attenti alle generalizzazioni, perché le Università, i giornali, le emittenti, le organizzazioni e le associazioni arabe sono piene di donne. Dov’è il vuoto? Nelle caserme, nell’Assemblea Costituente e nei Ministeri. È proprio questo ciò che non torna. La lotta continua contro le forze endogene (i confini interiorizzati dalle donne nel corso dei secoli) e le forze esogene (i centri del potere).

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Nell’ultimo secolo le donne arabe hanno indubbiamente allargato il proprio spazio vitale spostando o abbattendo i confini, siano essi le mura domestiche, i recinti o i veli. Si è avuta una ricollocazione del centro vitale, il microcosmo femminile non è più riprodotto solo all’interno delle bellissime case arabe – la cui struttura tende per antonomasia a ricreare il mondo esterno – ma si è ampliato, andando ad abbracciare il posto di lavoro, i luoghi ricreativi (cinema, teatri), di studio (università, scuole, biblioteche) e soprattutto le piazze.

Le piazze. O meglio, La piazza, Tahrir. Durante quelli che oggi gli egiziani chiamano i “diciotto giorni”- dalle prime proteste del 25 gennaio 2011 alla caduta di Mubarak l’11 febbraio- Piazza Tahrir sembrò essere un’utopia eterogenea e tollerante.

Le notizie che oggi giungono dal Cairo riferiscono di stupri e violenze sistematiche, organizzate e politicamente motivate, pianificate (dalle sette di sera alle due del mattino) dentro e intorno Tahrir. Qui la religione non c’entra, questa è politica. E di nuovo i confini si restringono, perché quei
luoghi vuoti dove le donne non sono ancora riuscite a riversarsi stanno facendo di tutto per arginare la “fitna” che vuol dire “caos” ma anche “bella donna”.

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