Kuwait, il voto riaccende le tensioni

Solo il 26% degli aventi diritto si è presentato alle urne. Buon risultato della componente sciita, che guarda a Teheran. Proseguono manifestazioni e scontri.

Kuwait, il voto riaccende le tensioni
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5 Dicembre 2012 - 08.55


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di Andrea Ranelletti

La chiusura delle urne non scioglie i dubbi sul futuro del Kuwait. Nelle speranze della famiglia reale, il voto di sabato scorso avrebbe dovuto concludere il burrascoso periodo seguito all’ennesimo scioglimento del parlamento e alla riforma elettorale. L’altissima astensione si è però rivolta come un boomerang contro l’emiro e il governo, sempre più al centro di polemiche e accuse.

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La scelta del composito fronte di opposizione di disertare le urne per dar battaglia in piazza è destinata a ledere l’equilibrio di una delle poche nazioni che era parsa immune ai venti delle contestazioni. Per l’emirato si prospetta ora una stagione di manifestazioni e repressioni destinata ad avvelenare il dibattito politico.

Il goffo tentativo del ministro dell’Informazione Sheikh Mohammad Abdullah Al-Sabah di sminuire la portata del tasso di astensionismo tradisce il nervosismo presente nel Consiglio ministeriale. Inequivocabili le cifre: si va dal 26% di votanti dichiarati dai membri dell’opposizione al comunque misero 40% indicato dagli uomini del governo. Un paragone con il 60% di elettori registrato alle consultazioni dello scorso febbraio appare impietoso. L’impasse politica sfibra la legittimità di istituzioni che non hanno mai brillato per trasparenza democratica, ma la cui stabilità ha garantito negli anni al Kuwait di proporsi come valido interlocutore delle potenze occidentali.

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La minoranza sciita (circa il 30% del paese) ha ottenuto un importante risultato, passando dai 7 seggi dello scorso febbraio agli attuali 17. La scelta di rifiutare la chiamata all’astensione – rivolta dagli esponenti politici dell’islamismo sunnita – è stata fruttuosa. Lo scenario dei rapporti tra il Kuwait e l’Iran sciita potrebbe ora conoscere ulteriori evoluzioni. Tra i paesi del GCC (Gulf Cooperation Council), il Kuwait è uno di quelli ha provato di più ad aprire all’Iran: nonostante il timore legato alla propria delicata posizione nella scacchiera del Golfo, diversi ministri del Kuwait si sono esposti in passato per difendere il programma nucleare iraniano.

L’ambizione dell’emiro Sheikh Sabah Al-Ahmad Al Jaber Al Sabah di ridurre al minimo la dialettica tra parlamento e governo ha trovato compimento. La famiglia reale è sempre stata divisa tra il desiderio di accentrare nelle proprie mani il maggior potere possibile e la necessità di mostrare un certo grado di rispetto verso le elementari libertà democratiche. Si pensava che la decisione di mettere al bando i partiti politici e costringere i candidati al parlamento a correre individualmente costituisse il punto massimo cui si sarebbe spinto l’emiro, ma non è stato così. L’autorità del parlamento elettivo è sempre stata molto ridotta rispetto a quella di cui gode un governo composto da uomini vicini alla famiglia reale: nonostante ciò alcune libertà (ad esempio la possibilità di sfiduciare i membri del consiglio dei ministri) erano troppo ingombranti per esser lasciate a disposizione di elementi politici non sempre condiscendenti.

Il fronte del malcontento si fa intanto sempre più articolato e unisce personalità politiche eterogenee. Un’inedita coalizione di islamisti, liberali d’impronta occidentale, nazionalisti e rappresentanti di tribù di varia grandezza e incidenza ha a disposizione un’ampia quota di consenso popolare che cercherà di far valere al di fuori delle istituzioni nazionali.

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L’opposizione degli islamisti, composta da membri dei quattro gruppi più votati lo scorso febbraio, promette battaglia contro quello che ormai bolla come “potere assolutista corrotto”. La tanto contestata riforma elettorale (diminuzione delle preferenze possibili da 4 a 1) ha avuto il solo effetto di soffiare sul fuoco, annullando un’antica tradizione di forte partecipazione popolare al processo democratico.

Da lunedì continuano a giungere notizie di scontri tra manifestanti e forze dell’ordine. Le manifestazioni sono iniziate contemporaneamente in vari quartieri di Kuwait City, rivelando così un certo grado di organizzazione. La richiesta degli attivisti è l’annullamento della riforma e l’indizione di nuove elezioni per il parlamento. Il filtro della comunicazione filogovernativa impedisce un resoconto attendibile: non si ha ancora notizia di feriti, nonostante si sappia di un utilizzo di lacrimogeni e granate stordenti da parte della polizia.

Resta da vedere quale sarà in tale quadro l’atteggiamento delle potenze occidentali nei confronti dei moti nel Kuwait. Washington e Unione Europea dovranno nuovamente cercare un difficile equilibrio tra il supporto delle libertà democratiche e il mantenimento delle storiche alleanze con le famiglie dominanti nel Golfo. Già nei prossimi giorni si comprenderà su quale strada decideranno di muoversi la famiglia reale e il nuovo governo: repressione dura o concessioni all’opposizione. Il Kuwait è ancora lontano dall’orlo del precipizio, ma le conseguenze di valutazioni sbagliate potrebbero essere oltremodo gravi.

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