Robot volanti Usa nella guerra tra Turchia e ribelli curdi

Quattro aerei senza pilota americani (droni), finora impiegati nella guerra in Iraq, saranno utilizzati da Ankara per lanciare i suoi assalti ai guerriglieri curdi.<br><br>

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16 Novembre 2011 - 09.53


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«In linea con il piano degli Usa di lasciare l’Iraq – ha spiegato il ministro degli esteri turco Davutoglu – i predators voleranno per l’ultima volta dall’Iraq il 22 novembre. Da quel momento in poi i quattro droni (attualmente in Turchia) saranno posti sotto una missione di sorveglianza» turca. Inoltre, ha chiarito il ministro – rettificando le notizie pubblicate da Taraf – «le informazioni fornite dai droni saranno condivise in tempo reale con un’apposita centrale in Turchia e i percorsi che i predators faranno saranno decisi solo e soltanto dalle Forze armate turche».

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Al margine del recente G20 di Parigi il primo ministro Recep Tayyip Erdogan ha chiesto al presidente americano Barack Obama di poter comprare altri droni dagli Stati Uniti. Spiegando che Ankara ha bisogno di queste tecnologie per combattere al meglio la sua guerra contro il terrorismo curdo, tornato a colpire violentemente la Turchia negli ultimi mesi. Non solo. Ankara – stando a quanto dichiarato dal ministro dei trasporti Binali Yilidirim – «entrerà presto a far parte del ridotto numero di nazioni che saranno capaci di fabbricare da sé gli aerei senza pilota».

Quanto lungo sarà tale tempo d’attesa è difficile dirlo. Di certo c’è che da quest’estate la Turchia chiede agli Stati Uniti di poter utilizzare direttamente i suoi droni. In questi anni di occupazione dell’Iraq, gli Usa e la Turchia avevano firmato un accordo che consentiva ad Ankara di condividere le informazioni raccolte dagli aerei americani per preparare le sue incursioni nel nord- Iraq, dove i miliziani del Pkk trovano rifugio. Ma gli Stati Uniti avevano sempre resistito alle richieste di Ankara.

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Il cambio di linea è arrivato quando Ankara ha accettato di installare sul suo suolo un radar che fa parte del sistema di protezione anti-missile della Nato (la Turchia è l’unico paese musulmano a far parte dell’Alleanza atlantica): una decisione che ha fatto deteriorare i rapporti con l’Iran, sebbene Ankara abbia tenuto a dire che l’installazione non era diretta contro Teheran.

Nei mesi scorsi la Turchia e l’Iran hanno condotto insieme delle operazioni contro il Pkk e il Pjak (l’organizzazione curda che combatte in Iran). Ma l’impiego di queste armi americane, insieme alla sempre più stretta vicinanza di Ankara con gli Usa e l’Occidente sulla questione siriana, stanno allargando sempre di più il solco apertosi tra Teheran e Ankara. Avvicinando invece la Turchia ai suoi alleati storici tradizionali, gli Stati Uniti e l’Unione Europea.

La guerra contro i guerriglieri curdi è in effetti ampiamente sostenuta dai partner occidentali, che hanno riconosciuto il Pkk come organizzazione terroristica. La questione curda, tuttavia, non è fatta solo di lotta al terrore: ha in sé tutta una serie di delicati problemi culturali, politici economici che non possono certamente essere affrontati con la sola forza delle armi.

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Negli ultimi mesi Erdogan – che nelle precedenti legislature aveva fatto delle aperture significative ai curdi – ha compiuto più di un passo indietro su questi fronti. Ma anche lui sa ancora benissimo che non sarà il ricorso alla chirurgia militare ciò che scioglierà un nodo ingarbugliato da quasi cento anni di prevaricazioni, errori e violenza.

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