Messico: giornalisti e scrittori in pericolo

Intervista a Homero Aridjis scrittore e giornalista di successo in Messico, che ci racconta la sua storia e il paese in cui vive e ha vissuto sotto minacce.

Messico: giornalisti e scrittori in pericolo
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4 Luglio 2011 - 15.12


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Quando ha scoperto la sua vocazione letteraria?

In tenera età. Fu una scoperta non voluta e giunta grazie a una disgrazia. Ero poco più di un bambino. Avevo 11 anni circa. Trovai in casa un fucile. Mi misi alla finestra e attesi il passaggio di qualche uccellino. Finché uno passò e io gli sparai. Un solo colpo, nonostante il fucile ne avesse due di proiettili. Quando lo riposai a terra partì il secondo proiettile che mi colpì all’altezza della pancia. Fui ricoverato in un ospedale dello stato di Michoacan per ben 19 giorni. Ecco durante la degenza mio padre mi comprò e mi portò diversi libri fra cui uno di Emilio Salgari. Li divorai letteralmente. E iniziai a divorare testi anche quando tornai a casa. Ecco, nonostante le poche disponibilità economiche che aveva la mia famiglia, ho ricevuto molti libri. Quello è stato il momento vero della scoperta della mia vocazione letteraria. Misi da parte il pallone, che fino a quel momento era stato uno dei miei più fedeli compagni di giochi, e iniziai a legger di tutto e a scrivere poesie e racconti. Da allora non mi sono più fermato.

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E poi che è successo?

Diciamo che l’occasione più importante arrivò quando mi trovavo a Città del Messico. Avevo intenzione di studiare alla scuola di giornalismo anche se il mio desiderio principale era diventare scrittore. Lì incontrai molte persone importanti e iniziai a frequentare il bel mondo della cultura composto dagli intellettuali più fini del Paese. Fu in quel periodo che inizia ad avvicinarmi a tutto ciò che riguardava l’ambiente.


In che modo?

Un amico filosofo che insegnava all’Università di Città del Messico, un giorno del 1985 scrisse una lettera a un giornale perché si accorse che quel giorno in particolare l’inquinamento in città aveva raggiunto a suo avviso livelli altissimi. Addirittura per far uscire la notizia deviò il tragitto del taxi su cui viaggiava per andare a consegnare direttamente una lettera di protesta da far pubblicare. Io lessi quella lettera e guardando mia moglie le raccontai come anche io mi stavo accorgendo ogni giorno che passava di quanto fosse alto il livello di inquinamento in città. Mi sentivo morire e facevo fatica a respirare in quei giorni. Pensai, però, che scrivere anche io una lettera di protesta fosse abbastanza inutile: nessuno l’avrebbe letta e tantomeno avrebbe risposto. Non so come funzioni negli altri stati ma in Messico scrivere a un giornale è tempo perso. Se la missiva giunge in redazione è già un miracolo. E’ impensabile poi, sperare in una risposta. Quando scrivi una lettera a un giornale messicano è come scriverla a Babbo Natale.

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Dunque ebbe tutto inizio dalla lettura di quella lettera….

Sì. Pensammo anche che se ci fossimo uniti nelle proteste per la salvaguardia dell’ambiente avremmo anche potuto ottenere qualcosa. In quegli anni gli abitanti di Città del Messico non avevano alcuna informazione sui livelli di inquinamento che li colpivano. In sostanza, però, devo dire che fu mia moglie a spronarmi. Mi disse che sarebbe stato utile parlare con altri scrittori, poeti e vedere di organizzare qualcosa di imponente. Alla fine c’era molta gente che soffriva.
L’idea mi ispirò molto e mi misi in contatto per prima cosa con chi scrisse quella lettera al giornale. Poi venne la volta di un altro scrittore e poi un altro ancora. Alla fine ci chiesero di scrivere una lettera, un appello e a firmarlo arrivarono moltissimi intellettuali importanti come Gabriel Garcia Marquez, Francisco Toledo, Octavio Paz che vivevano nel Paese.


Una lettera, un gruppo di amici intellettuali e un’indagine sull’inquinamento a Città del Messico. Sembra una prassi normale ma in Messico ha causato qualche problema….

Il problema ecologico, il grande inquinamento che colpisce la capitale del Messico ma in generale tutto il Paese era soprattutto in quel periodo fuori dal controllo di chiunque. Non c’erano dati e nemmeno si conoscevano i livelli di inquinamento. Ma erano alti altissimi e ne soffriva la popolazione così come gli animali. Io più volte ho raccolto uccellini morti a causa dell’aria totalmente inquinata. E che dire delle persone che si sono ammalate a causa dell’aria inquinata? Ce ne saranno a centinaia che non sono state censite solo perché fino alle proteste del 1985 nessuno faceva nulla. Questo anche perché non esisteva alcuna legge ambientale e anche perché per la prima volta nel Paese si poneva l’inquinamento ambientale come problema politico e sociale. Gridavamo per le strade che avevamo diritto alla vita. Questo ha contribuito alla creazione di un grande movimento ambientalista.


Poi il terremoto del 1985…

Sì, quello fu un momento orribile. La popolazione però prese coscienza e si rese conto che molti crolli si sarebbero potuti evitare ma che la corruzione aveva avuto il sopravvento nel corso degli anni e che gli interessi di pochi avevano giocato con la vita di molti. Iniziammo proprio in quel periodo una grande mobilitazione popolare che aveva come slogan principale: “La corruzione è una pessima costruttrice”. Una frase forte che diceva tante cose. E poi avevamo tutti davanti agli occhi gli edifici costruiti dalle antiche civiltà messicane: quelli restarono in piedi perchè furono costruiti con intelligenza e a favore del popolo. Quelli che furono i figli della corruzione, invece, cascarono come fuscelli. In ogni caso il terremoto ci diede maggiore forza per le nostre battaglie ambientali e partirono le campagne in difesa di tutti gli animali in via di estinzione.

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Dunque, una volta iniziata la mobilitazione per un ambiente più pulito e a misura d’uomo, voi siete stati minacciati. Avete rischiato molto solo perchè vi siete esposti in prima persona, soprattutto lei..

Diciamo che ho subito diverse volte minacce di morte dal 1995 in poi. Ero considerato un attivista ecologico e per questo ero pericoloso. Tutto ciò che può aprire le coscienze in Messico è considerato pericoloso. La mia fortuna è stata quella di essere diventato ben presto presidente del Pen Club Internacional, una organizzazione seria che si prende cura di scrittori e giornalisti perseguitati. Per queste ragioni mi fu assegnata una scorta. Un mio caro amico, però, era convinto che le stesse persone che mi minacciavano erano quelle che si dovevano occupare della mia sicurezza. Insomma anche io più di una volta ho avuto il dubbio che le mie guardie del corpo fossero lì più per controllare ciò che facessi che per salvarmi la vita.
Il fatto che fossi presidente del Pen Club, poi, non faceva certo piacere alle autorità che vedevano in questo una difesa della libertà d’espressione. Nel mio Paese questa cosa non è mai piaciuta molto e anche per queste ragioni che oggi la situazione è quella che tutti conosciamo: migliaia di morti, violenze, bande criminali che gestiscono la vita del Paese.


Quindi la sua attività di scrittore e attivista infastidiva i poteri forti…?
Sì certo. Avevano delle guardie che non mi facevano mai fare nulla da solo.

Loro dicevano che era per il mio bene ma non ero più libero di fare nulla. Non potevo uscire nemmeno a comprare il giornale da solo. Per le mie guardie ogni persona che mi si avvicinava era potenzialmente un pericolo. Però, io avevo paura solo di loro e non della gente della strada.


Come la minacciavano?

Con i mezzi classici. In quel periodo nel Messico erano molto in voga i rapimenti di persona a scopo estorsivo. Telefonavano a casa e dicevano cose che potevano ricondurre a gruppi di sequestratori. Ma alla fine non è mai successo nulla: mi dicevano, proprio nello stile dei rapitori, che avrebbero rapito mi mia moglie, le mie figlie. Mi dicevano che avrebbero tagliato loro un dito, un orecchio e che lo avrebbero spedito a casa, così da dimostrate che facevano sul serio. Non solo. Altre volte telefonavano, era evidente che fossero ben preparati, e minacciavano di morte in modo violento come se fossero killer del narcotraffico.

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Dunque, passò molti anni sotto minaccia?

Sì. La terza volta che mi minacciarono fu quando rilasciai un’intervista per il quotidiano spagnolo El Pais in seguito all’eccidio di donne bambini e anziani avvenuto a Acteal, in Chiapas. Fui molto critico. Un’intervista forte in cui dissi liberamente ciò che pensavo e criticavo ciò che accadde contro i campesinos. Il giorno seguente ricevetti minacce di morte. Minacciarono me e tutti i miei familiari. Arrivati a un certo punto pensammo che quando squillava il telefono era meglio non rispondere e far fare questo lavoro alla segreteria telefonica. Non sentire le minacce ci avrebbe fatto vivere sicuramente meglio e con più tranquillità.


Diventare presidente del Pen Club possiamo dire che salvò la sua vita?

Quando ero presidente del Pen mi capitò di partecipare a una riunione di giornalisti. In quella circostanza scoperchiai la pentola che conteneva le minacce e le vessazioni che venivano perpetrate nei confronti dei giornalisti. Parlammo molto della libertà di stampa, di pensiero, di parola, degli omicidi che colpivano i giornalisti.
Il giorno dopo uno di loro, rientrato a Tijuana, fu crivellato di colpi. Uccisero il suo autista e lui si salvò per miracolo anche se gli spararono in testa. Addirittura durante l’attacco un killer venne colpito da un proiettile di rimbalzo che lui stesso aveva sparato. I killer credevano che il giornalista non ce l’avrebbe fatta, invece si salvò. Pochi istanti dopo l’attentato ricevetti una telefonata che mi invitava a non intromettermi in vicende che non mi riguardavano.


Ma le minacce di morte giungevano per il suo attivismo in favore dell’ambiente o per la sua attività di scrittore e poeta che favoriva la libera circolazione dei pensieri delle persone?

Ci pensavo spesso e credo che tutto fosse rivolto verso la mia attività di scrittore. Ripeto che l’essere diventato presidente del Pen Club ha solo favorito la mia posizione e mi ha anche un po’ riparato da potenziali attacchi. Ma le intimidazioni erano continue e ad un certo punto decisi di fare una conferenza stampa e raccontare ciò che stava accadendo. Invitai decine di giornalisti, soprattutto i corrispondenti dei quotidiani statunitensi e che in quel periodo potevo considerare amici. Spesso in Messico i giornalisti possono essere al soldo dei potenti e non fanno ciò che la professione gli consenti di fare. Troppe volte li ho visti dalla parte del governo. Spesso li ho sentiti attaccare colleghi che denunciavano situazioni pericolose. Altre volte ho sentito la propaganda falsa che mettevano in giro pur di mettere in cattiva luce chi denunciava.

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Poi che successe?

Dal 1997/98, come erano arrivate le mie guardie del corpo se ne sono andate. Così, senza spiegazioni, senza un’apparente motivazione. Sembrava che i pericoli per la mia persona fossero terminati tutti in un solo istante. Mi venne in mente di chiedere se ci fossero novità in merito alle minacce e alle persone che mi telefonavano la loro risposta fu allo stesso tempo agghiacciante e desolante: ‘Noi proteggiamo le persone, non facciamo indagini. Adesso c’è un problema con gli studenti dell’università e ce ne dobbiamo andare. Dobbiamo controllare ciò che accade all’interno dell’ateneo’. Io ero certo però che non ci fossero problemi all’università. Anche in questo caso la loro risposta fu emblematica: ‘No, adesso non ci sono problemi veri, ma arriveranno molto presto’. Come a dire: siamo noi a decidere come e quando ci sarà pace, calma e tranquillità in questo Paese.


Chi è più colpito, scrittori o giornalisti?

In un primo momento penso fossero gli scrittori ad essere maggiormente perseguitati. Oggi senza dubbio devo dire che i giornalisti non se la passano per nulla bene. Non sono certo io quello che deve dare le cifre delle vittime. I giornalisti nel nostro Paese fanno un mestiere pericolosissimo, soprattutto quando raccontano fatti legati alla criminalità organizzata. Addirittura se guardiamo nella totalità di questa che possiamo definire una guerra fra stato e bande criminali, ci accorgiamo che in pochi anni ci sono state più vittime in Messico che nella guerra di Iraq e Afghanistan.

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