La giustizia nella Terra Promessa

La Terra Promessa. Non quella di Abramo, l’antica Palestina di biblica memoria. Eppure, la Bibbia c’entra eccome. È la Terra Promessa dei primi coloni evangelici nel Nuovo Mondo, quelli sbarcati dalla Mayflower sulle coste del Massachusetts

La giustizia nella Terra Promessa
Mayflower
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Seba Pezzani Modifica articolo

25 Gennaio 2024 - 01.00


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La Terra Promessa. Non quella di Abramo, l’antica Palestina di biblica memoria. Eppure, la Bibbia c’entra eccome. È la Terra Promessa dei primi coloni evangelici nel Nuovo Mondo, quelli sbarcati dalla Mayflower sulle coste del Massachusetts (più pellegrini che coloni, almeno inizialmente), e di tutti gli altri cristiani europei che ne hanno seguito le orme.

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È la Terra Promessa celebrata a più riprese nelle canzoni tradizionali dei monti Appalachi, con immagini bibliche a profusione. È l’America bianca, prima, e quella nera, poi: un’America che non ha mai del tutto saputo fondere queste sue due anime, ma che ha trovato nel comun denominatore del variegato universo evangelico un terreno di riflessione creativa. È “The Promised Land” di Bruce Springsteen, secondo l’interpretazione poco attenta di Ronald Reagan. Comunque sia, quel bagaglio di scene bibliche di distruzione e illuminazione è nel DNA degli Stati Uniti, Sodoma e Gomorra del mondo dei giusti. Basta scegliere una canzone di Bob Dylan a caso per individuarne qualche riferimento.

I giusti. Nella Terra Promessa. Il luogo mitico, l’Eden mondano che ha fatto da culla alla cultura occidentale? Già, la terra che oggi porta il nome di Stato di Israele. Troppo spesso si sorvola sul forte legame messianico tra l’intransigenza e l’aggressività del popolo di Israele e l’ostinazione e la possessività degli eredi bianchi dei Padri Pellegrini, i primi coloni che la nave Mayflower ha condotto al “giusto” paradiso in terra. Entrambi fanno della Bibbia uno strumento ineludibile nell’esercizio del potere. Entrambi si professano esempi virtuosi di democrazia. Entrambi brandiscono la Bibbia con una mano e il fucile con l’altra: l’Uzi per gli israeliani e il Winchester (ora l’M16) per gli americani. E, cosa più rilevante, entrambi sono fautori dell’inevitabilità del fato che li accomuna: la terra che occupano gli è stata assegnata per decreto divino. Pazienza se ciò, nel primo caso, ha significato non riconoscere il diritto di un altro popolo a viverci e, nel secondo, annientare la popolazione nativa e sfruttarne un’altra, importandola dall’Africa, per fare il lavoro duro.

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Il ruolo messianico che questi due popoli si autoassegnano implica una visione distorta della giustizia. In fondo, gli Stati Uniti sono il paese dei linciaggi: dove non può la legge, può la giustizia fai da te. E persino le leggi spesso inseguono quest’idea di giustizia biblica da applicare alla realtà quotidiana. La riflessione sorge spontanea, specialmente alla vigilia della prima esecuzione per ipossia da azoto di un condannato a morte. Lo stato è quello dell’Alabama, dove la pena capitale è ancora in vigore. Le statistiche dicono a chiare lettere che i reati per i quali viene comminata la pena di morte non sono minimamente in calo negli stati che la prevedano. Dunque, continuare a propugnarne l’inevitabilità e l’efficacia è diabolico quanto l’humus peccaminoso che l’ordinamento di impronta biblica di quello e di altri stati della federazione intende estirpare.

Ho molti amici negli Stati Uniti, soprattutto nella comunità degli scrittori, e mi è capitato spesso di discettare con loro anche di un tema scottante come quello della liceità di mettere a morte un uomo. Il cittadino americano, per quanto illuminato e colto, è più incline di quello europeo a limitarsi a un’alzata di spalle: della serie, non ho problemi ad ammazzare un individuo che si sia macchiato di crimini raccapriccianti. Ma, ovviamente, grandi personalità intellettuali si rendono conto dell’inutilità pratica di tale scelta e, comunque, hanno dubbi sul fatto che il condannato a morte abbia sempre i mezzi per avvalersi di un collegio difensivo degno di tal nome. Insomma, considerato che buona parte dei condannati a morte proviene da ambienti difficili, degradati, indigenti, l’affidabilità della giustizia è messa in discussione.

In Alabama si sta per giustiziare un uomo già sottoposto a esecuzione capitale per iniezione letale e sopravvissuto a due punture. La governatrice repubblicana dello stato, di evidenti convinzioni conservatrici ed evangeliche – armaiola, antiabortista, anti-movimento LGBTQ, anti-eutanasia, anti-vaccino, insomma, anti-tutto – è una strenua sostenitrice della pena capitale, da lei ritenuta la “migliore risposta della giustizia alle vittime e alle loro famiglie”. Considerato che la morte per ipossia da azoto è ritenuta contraria a qualsiasi principio umanitario e ancor più disumana per le sofferenze a cui pare che sottoponga il condannato, la scelta di farvi ricorso risponde più all’esigenza di aderire al più intransigente evangelismo che a un autentico criterio di giustizia. La natura forcaiola di tale decisione atterrisce. Ma, come mi disse una volta l’amico romanziere texano Joe R. Lansdale, “Agli evangelici, malgrado il nome, il Vangelo non piace tanto. Preferiscono l’Antico Testamento. Se gli dici che Gesù promuoveva il ‘porgi l’altra guancia’, ti rispondono senza esitazione che Dio, nella Bibbia, parlava di ‘occhio per occhio, dente per dente’”.

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Si sa: ubi maior, minor cessat.

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