Letteralismo e interpretazione: credere è parte del problema o della soluzione?

L’idea di un rapporto tra fede e ragione mi ha sempre interessato essendo un agnostico che non vede perché non poter fare, come proponeva papa Benedetto; agire come se Dio ci fosse

Letteralismo e interpretazione: credere è parte del problema o della soluzione?
Benedetto XVI e Papa Francesco
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Riccardo Cristiano Modifica articolo

7 Aprile 2023 - 15.59


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L’idea di un rapporto tra fede e ragione mi ha sempre interessato essendo un agnostico che non vede perché non poter fare, come proponeva papa Benedetto; agire come se Dio ci fosse. Ma  basterebbe a capirsi? Esiste infatti una sola ragione, diciamo per capirci senza scantonare dal nostro discorso “una sola ragionevolezza”? Per qualcuno è ragionevole dire sempre la verità, per altri alle volte dirne metà è più logico, considerando quanto tutta una verità potrebbe ferire un nostro interlocutore, non pronto a sentirla tutta. Il punto però è molto più importante. 

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La famosa Lectio Magistralis di papa Benedetto XVI a Ratisbona riguardava proprio il rapporto tra fede e ragione e quindi avendo causato reazioni irragionevoli parto da qui.  Come è noto l’incidente islamo-cristiano scaturì dalla citazione dell’Imperatore bizantino Manuele II Paleologo, non da quanto disse il papa e già questo non è un esempio di ragionevolezza. Inoltre l’imperatore citato guidava al tempo un mondo che stava per crollare in mano ai musulmani, che non lo poneva nelle condizione di essere molto ragionevole verso i musulmani. Nel testo, Benedetto XVI citò l’imperatore così: “Mostrami pure ciò che Maometto ha portato di nuovo, e vi troverai soltanto delle cose cattive e disumane, come la sua direttiva di diffondere per mezzo della spada la fede che egli predicava”. 

Prima di vedere cosa aggiungeva di suo Benedetto, questa citazione, all’apparenza ragionevole, diviene meno ragionevole se si considera che chi così parlava guidava un impero che aveva perseguitato i cristiani che non condividevano la sua interpretazione della natura di Gesù Cristo. Il che, oggettivamente, la rende meno ragionevole. Ciò detto, procediamo con la lettura del passaggio decisivo che creò polemica. Dopo aver preso le distanze dai modi pesanti di Paleologo, il papa ha affermato; “ L’affermazione decisiva in questa argomentazione contro la conversione mediante la violenza è: non agire secondo ragione è contrario alla natura di Dio. L’editore, Theodore Khoury, commenta: per l’imperatore, come bizantino cresciuto nella filosofia greca, quest’affermazione è evidente. Per la dottrina musulmana, invece, Dio è assolutamente trascendente. La sua volontà non è legata a nessuna delle nostre categorie, fosse anche quella della ragionevolezza. In questo contesto Khoury cita un’opera del noto islamista francese R. Arnaldez, il quale rileva che Ibn Hazm si spinge fino a dichiarare che Dio non sarebbe legato neanche dalla sua stessa parola e che niente lo obbligherebbe a rivelare a noi la verità. Se fosse sua volontà, l’uomo dovrebbe praticare anche l’idolatria”. 

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Questo punto mi ha sempre interessato perché ibn Hazm non è un Sant’Agostino dell’islam. Indubbiamente molti studiosi convengono nel dire che la ragione umana per il Corano produce solo congetture; questo può salvare da eccessi positivisti ma porta anche a un trascendentalismo della verità che la ragione umana non può cogliere. Pensava a questo ibn Hazm? Ma soprattutto,  chi era costui?

 Il suo testo più famoso, tra moltissimi, si intitola  Il collare della colomba, è dedicato all’amore e agli amanti. Nella prefazione alla traduzione italiana il professor Paolo Branca ha spiegato il mistero di questo imam che non apparteneva a nessuna delle quattro grandi scuole giurisprudenziali islamiche  e il cui pensiero giuridico, a differenza della sua poesia, non ha influito su molti, scrivendo: “È un paradosso: lui, che in modo così impareggiabile sapeva penetrare oltre il cielo delle apparenze, proprio lui abbracciò in religione la dottrina zahirita, ossia il feticismo della lettera, dell’evidenza scritturale (da Zaher che in arabo vuol dire ciò che appare, l’esteriore). 

Una concezione estrema condannata nell’Islam da tutti i saggi dottori ben provvisti di barba. Una dottrina accusata di tasbih, ossia di antropomorfismo, di attribuzione a Dio di qualità umane. Ma un acuto studioso ha notato che «lo zahirismo fu per lui, com’egli lo intendeva, l’espressione della sua sincerità assoluta e il mezzo per sottoporre a una prova implacabile le affermazioni dei dotti e dei saggi»”. Questa citazione finale è dello stesso Roger Arnaldez citato da Benedetto XVI, il che può confermarci sia la fondatezza della frase citata dal papa – introvabile da chi scrive vista la sterminata produzione di ibn Hazm – sia il giudizio di Paolo Branca, che scrive: «Perché in realtà – anche solo limitandosi a un’analisi molto attenta del Collare della colomba, opera che comunque fu scritta prima della sua adesione alla dottrina zahirita – in ibn Hazm è impossibile trovare una sola frase o una parola minimamente sospettabili di quella ottusità che si immagina inseparabile da tutte le forme di fanatismo della lettera».

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Questa spiegazione di ibn Hazm ci giunge attraverso la citazione finale è importantissima dello stesso Arnaldez citato da Benedetto  e mi ha sempre fatto ritenere che qualche  amico di Benedetto lo abbia indirizzato su questa strada, forse per  identificare il diffuso lettaralismo islamico con il pensiero islamico in generale  più che per prendersela con il povero poeta degli amanti.  Se così fosse si sarebbe piegato a una visione di parte un prologo tanto importante quanto metodologico. Eppure l’assunto dell’imperatore meritava una risposta: perchè in tanti paesi arabi la legge, non religiosa ma civile, ancora proibisce a un maschio non musulmano di sposare una musulmana senza prima convertirsi? 

In questi giorni per fortuna mi è capitato di leggere un bel saggio di padre Giacomo Cucci e Betty Varghese, intitolato “La terapia dei pensieri”. E’ importantissimo per tanti motivi, ma a me ha colpito soprattutto per questo: vi parla dei padri del deserto e riferendosi a un episodio documentato   racconta che uno di essi riconobbe la semente del diavolo in questo pensiero: “poiché non riesci né a digiunare né a lavorare, visita almeno gli ammalati. Questo merita ricompensa”. A prima vista è ragionevole, ma a pensarci bene cosa ci sarebbe di ragionevole nel rimuovere due problemi decisivi come il non saper né digiunare né lavorare da parte di un monaco? Più avanti, leggendo, mi sembra di capire meglio: “l’azione compie ciò che il sapere e la comprensione non sarebbero mai in grado di ottenere”. Procedendo ho trovato citazioni che  riportano che Mosè disse “come potete fare precedere l’azione all’aver ascoltato”. Ma che ascolto è questo  ascolto? E’ un ascolto fideistico, mi sembra. Dio non ci può ingannare o fuorviare, dunque è bene decidere di seguire quel che ci dirà ancor prima di averlo udito. Perché, osservava probabilmente dal suo mondo e dal suo osservatorio ibn Hazm, assediato da interpretazioni oscurantiste e fuorvianti,  sono gli uomini che ne deturperanno il senso, con le loro interpretazioni. 

Questo mio disperato tentativo di recuperare alla ragione il povero ibn Hazm senza entrare nella sua storia  non è frutto di un pregiudizio pro-islamico, ma della sensazione che “ragione” e “interpretazione” non bastino a salvarci da deviazioni oscurantiste e fuorvianti.  L’interpretazione è di certo fondamentale, come la ragione. Ma basta questo a evitare guai ulteriori? E’ chiaro ad esempio che Dio ama i poveri? Lo direbbe ovunque e a tutti, certo, ma certe interpretazioni per le quali se li amasse veramente non li lascerebbe poveri non si spiegano con il detestabile letteralismo, ma con una certa idea di “ragione”. Se Dio è l’Onnipotente e ama i poveri, allora li renderebbe ricchi. Dunque ama i ricchi, non i poveri. 

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Cosa non vada con i lettaralismo mi è più chiaro da quando ho avuto un incidente:  se il comando “non uccidere” io lo intendessi come una condanna dell’automobilista distratto che senza alcuna intenzione mi ha investito starei ai fatti, “non uccidere”, ma non alla mia interpretazione di cosa questo voglia dire, cioè “non farlo intenzionalmente, per uccidere”, cosa che certamente non passava per la testa dell’ automobilista distratto. Diventa assassino anche chi, scivolando, fa cadere involontariamente un vaso e così facendo colpisce in testa un passante? Si potrebbe proseguire in questo modo per pagine e pagine, ricordando ad esempio che insegnamenti inerenti all’eros, così importanti per tutte le Chiese, nel vangelo non ci sono, non figurandovi neanche la parola,  piuttosto a invitato a scagliare la prima pietra sol chi non abbia mai peccato: e il termine Umma (comunità), in Maometto, è riferito anche a Medina, dove vivevano anche non musulmani, e dunque la comunità di fede non esclude comunità più ampie. Il lettaralismo uccide più degli sbadati, ma come si spiega che questa evidente ragionevolezza non appare ragionevole ad altri? Per me è irragionevole che Dio escluda dall’amore due persone che si amano, come fanno tanti credenti ostili agli omosessuali. Per loro evidentemente non è così. 

Il saggio sui padri del deserto mi ha fatto capire che probabilmente la ragionevolezza o l’irragionevolezza della fede stanno nella vicinanza o lontananza di Dio. Questo divide, e lo fa trasversalmente. Solo la sua vicinanza o lontananza  ce ne spiega la parola. Nella mia visione nessun creatore può non essere vicino a ciò che crea, perché ne capisce meglio di tutti i difetti, la natura, i limiti.  È sul Dio vicino o lontano che le interpretazioni si scontrano. Abbiamo un padre, o creatore se così si preferisse dire, misericordioso o severo? Il secondo può per fortuna apparire irragionevole, a prescindere dalla fede che si professa. Per altri però sarà ragionevole il severo, a prescindere dalla fede che professano. Ed entrambi appariranno a me o ad altri ragionevoli. La storia non può risolversi definendo irragionevole me o gli altri, perché entrambi troviamo il nostro modo di pensare ragionevole. E concludo con una frase illuminante di Seneca che ho trovato nel citato saggio di  Giacomo Cucci e Betty Varghese: “ Non è perché le cose sono difficili che noi non osiamo, è perché non osiamo che sono difficili”. Ma anche questo purtroppo, può valere per immaginarlo più vicino o più lontano ancora. Il povero ibn Hazm, forse, lo considerava vicino, a differenza di tanti sapienti del suo tempo, e per questo voleva allontanare i suoi confratelli da loro, e avvicinarli a Lui. 

In definitiva a me sembra che il problema riguardi noi, quel di cui crediamo che il mondo abbia bisogno: ha bisogno di un giustiziere senza macchia, che imponga il bene e perseguiti i cattivi, o ha bisogno di un amico che gli apra gli occhi, solo perché gli vuole bene? E’ forse questo il motivo per cui un certo modo di credere è parte del problema e un altro parte della soluzione?  

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