Il Porajmos, la più che rimossa “Shoah tzigana”

Si ritiene che almeno 700mila zingari siano stati massacrati dentro e fuori i campi di sterminio, il 70 per cento dell’intera popolazione

Il Porajmos, la più che rimossa “Shoah tzigana”
Porajmos
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Giovanni Giovannetti Modifica articolo

28 Gennaio 2023 - 22.32


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La grande poetessa svizzera Mariella Mehr, zingara di etnia Jenisch, riteneva che bisognasse favorire l’ascesa in Europa di una élite culturale propria, così da ridare voce e credito al popolo Romanì.

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Per esempio, quando nei media e nel senso comune si parla dell’Olocausto, istintivamente si pensa agli ebrei e solo agli ebrei, dimenticando che anche gli zingari, fra gli altri, furono dai nazifascisti derubricati a non-umani. Ad ogni 27 gennaio, ricorrenza della Giornata della Memoria, prevale quindi il ricordo della Shoah, termine che vuole indicare lo sterminio di sei milioni di esseri umani di religione ebraica. Una enormità, che va ad eclissare la memoria di altri genocidi, come appunto quello del popolo zingaro (Rom, Sinti, Jenisch).

Gli indifferenti

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L’élite culturale zingara invocata da Mehr tuttora fatica a manifestarsi e di conseguenza la memoria dell’Olocausto – la più grande tragedia del Novecento, una delle più cupe pagine della storia dell’umanità – parrebbe affare che riguarda i soli ebrei.

Lo dico con tutto il garbo e il rispetto che un argomento così delicato richiede: chi è in condizione di farlo – e cioè tutti coloro che, a differenza del mondo zingaro, hanno accesso ai media – dovrebbe anche ricordare quanto meno la “Shoah zingara”, ovvero l’altrettanto efferato massacro di centinaia di migliaia di “zigeuner” nei lager nazisti di Auschwitz e Treblinka e in quelli balcanici di Jasenovac in Croazia, con il pieno appoggio dell’Italia fascista, e di Semlin presso Belgrado. Erano anche loro usati come cavie negli esperimenti “scientifici”; e molti zingari (uomini, donne, bambini) nemmeno videro i campi di sterminio perché, fuori da ogni contabilità, vennero uccisi davanti a casa loro.

Tutto questo è potuto accadere nello stesso clima di colpevole silenzio, nella stessa apatia morale e con la stessa ammorbante indifferenza di chi, in Italia come nel resto d’Europa, ha lasciato che si discriminassero e poi si deportassero e si uccidessero milioni di ebrei.

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In Romania nel biennio 1941-’42 il governo filo-nazista di Ion Antonescu deportò 25mila zingari in Transdniestria, una zona compresa tra la Moldavia e l’Ucraina sovietica occupata dai tedeschi. In pochi hanno fatto ritorno e quasi tutti i Rom rumeni oggi in Italia hanno in famiglia uno di questi lutti.

Si ritiene che almeno 700mila zingari siano stati massacrati dentro e fuori i campi di sterminio, il 70 per cento dell’intera popolazione. Questo genocidio i Rom serbi lo chiamano Porajmos, un percorso di morte condiviso, assieme agli Ebrei, con circa 9mila omosessuali e transessuali, 1500 testimoni di Geova e un numero imprecisato di disabili, malati di mente, comunisti e pentecostali. Di questi ultimi (una declinazione del protestantesimo) il sottosegretario all’Interno Guido Buffarini Guidi sosterrà che erano pratiche religiose «contrarie all’ordine sociale e nocive all’integrità fisica e psichica della razza». A loro aggiungeremo altri “indesiderati”, come i circa 45mila militari italiani che, deportati nei campi di lavoro coatto in Germania, da questi luoghi infami non usciranno vivi.

Come è potuto accadere? Per derubricare l’altro a nemico servono uno sguardo deumanizzante (così da negare i tratti costitutivi dell’umano, direbbe Chiara Volpato) e la creazione del “falso conflitto”: noi-loro (o noi o loro), ovvero la menzogna della conflittualità che vede l’altro relegato a non-umano alieno e inanimato, tanto da legittimare il peggiore arbitrio: ieri con zingari, omosessuali e soprattutto ebrei. Oggi con ebrei, omosessuali e soprattutto zingari.

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Un popolo di troppo

Se nella Germania nazista e nell’Italia fascista gli zingari erano considerati l’emblema dell’asocialità, non di meno le discriminazioni ai loro danni si prolungheranno nel dopoguerra.

Il 5 settembre scorso si è spenta Mariella Mehr, una delle voci più alte della poesia europea del nostro tempo nonché luminoso punto di riferimento per chiunque tra noi ha mosso anche solo un dito in favore dei diritti delle minoranze etniche e degli oppressi: Mariella Mehr, di etnia Jenisch, apparteneva infatti alla minoranza più discriminata e vessata del suo Paese. Sì, perché dal 1926 al 1974 (avete letto bene: 1974!) nella socialisteggiante Svizzera 600 bambini Rom sono stati sottratti alle famiglie e le loro madri sterilizzate nell’ambito dell’operazione “Kinder der Landstrasse”, che si proponeva l’estirpazione del «fenomeno zingaro». Questa attività ha avuto fra le ultime vittime proprio Mariella: nata nel 1947, sottratta bambina alla madre, come la madre e la nonna ha subìto l’allontanamento del figlio ed è stata resa sterile: un tormentato percorso tra orfanotrofio, istituti psichiatrici, violenze, stupri, elettroshock di cui troviamo traccia nei romanzi della “trilogia della violenza” (Il marchio, Labambina, Accusata). Tutto questo ha avuto fine solo dopo la denuncia pubblica da parte di Mariella, sostenuta da alcune femministe.

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Non più forni crematori, ma «fosse stato per il sindaco, i Rom li avrebbe messi sopra un treno e mandati via». Sono parole di un primo cittadino italiano già membro della Commissione etica di un partito “progressista” che, nel 2008, nuovo secolo, parlava di sé in terza persona. L’anno prima, lo stesso sindaco – un dirigente scolastico – aveva sentenziato che «nessuno di questi bambini verrà prossimamente inserito nelle scuole perché farlo costituirebbe un incentivo per le famiglie a radicarsi sul territorio», disdegnando così la Costituzione, i diritti universali dei minori e il buonsenso.

Un popolo “di troppo” si aggira per l’Europa e anche a sinistra vi fu chi sconsideratamente minacciò deportazioni “sopra un treno”.

Vecchi e nuovi pregiudizi

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Nel maggio 1945, lacera, sporca, incattivita, Liliana Segre può a fare ritorno a Milano reduce dall’inferno di Auschwitz-Birkenau (è tra i pochi sopravvissuti). Ma il portiere della sua abitazione al numero 55 di corso Magenta non la riconosce, e la allontana: «Via, via le zingare…», dirà.

Incredibile, ma l’anti-ziganismo e la romofobia – il pregiudizio razziale oppure quello dettato da istintiva paura – abitano in noi, nel “falso conflitto” con stranieri, diversi e poveracci, o con chi semplicemente la vede in modo diverso, trasformati in valvola di sfogo, per dirla con Bauman, «delle nostre inquietudini, della nostra insicurezza, del nostro disagio verso i problemi autentici».

E non da ora. Gli anni Cinquanta e Sessanta sono infatti decenni in cui in Italia (limitiamoci al nostro Paese) assistiamo al lento processo di sedentarizzazione e di perdita delle identità culturali zigane, percorso che ha portato al progressivo avvicinamento alle città degli zingari italiani e balcanici (fuggiti in Italia dopo la presa del potere da parte di Tito in Jugoslavia e di nuovo negli anni Novanta, per salvarsi dal conflitto), con la loro ghettizzazione in enormi, periferici «campi per i nomadi», ovvero aberranti luoghi di convivenza forzata che hanno limitato i processi di inclusione e il pieno accesso al sistema dei diritti. Una grande occasione sprecata. Finita l’epoca romantica del nomade giostraio o dedito al riciclo dei materiali di recupero, si sarebbe dovuto investire su scuola e lavoro, e su patti di reciprocità. Invece hanno avuto spazio i pregiudizi e i processi di marginalizzazione più autodistruttivi (nei campi si registrano forme elevate di tossicodipendenza). La strategia del rifiuto e dell’abbandono, insieme allo sgombero dei campi-ghetto senza disegnare un’alternativa, ha potuto solo spostare il problema, poiché sospinge Sinti e Rom tra i «perdenti radicali» di cui ci ha parlato Enzensberger, con il pericolo di vederli reclutati dalla criminalità.

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Ecco, a superare i vecchi e i nuovi steccati potrebbe concorrere un maggiore coinvolgimento dei Sinti e dei Rom nei riti della sfera pubblica, specie quelli, come il Giorno della Memoria, che li riguardano più direttamente e in profondità. Un degno passo lo ha fatto il presidente della Repubblica Sergio Mattarella nel suo discorso del 27 gennaio. Si spera che a lui possano accodarsi altri, anche dalle Sinagoghe, nel comune vincolo a ricordare che lega tutti, proprio tutti i popoli e le minoranze perseguitate e discriminate di questa nostra Terra. 

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