In ricordo di Giorgio Chinaglia, il piccolo emigrato che diventò il simbolo della Lazio

L'attaccante biancoceleste e della nazionale fu uno degli eroi dello scudetto sotto la guida di Tommaso Maestrelli, altro personaggio indimenticabile

In ricordo di Giorgio Chinaglia, il piccolo emigrato che diventò il simbolo della Lazio
Giorgio Chinaglia
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Giancarlo Governi Modifica articolo

1 Aprile 2024 - 02.55


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Ci lasciò in questo 1 aprile Giorgio Chinaglia, uno dei personaggi più rappresentativi della storia della Lazio, una storia dalla quale lui stesso non riuscì mai a distaccarsi.

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Su di lui mi rimangono impresse nella mente le parole di Gianni Brera quando ci raccontò la discesa forsennata di Giorgio che si concluse con il gol di Capello con il quale l’Italia espugnò Wemblay. Brera parlò di rivincita del povero emigrante con le pezze al sedere. Perché Giorgio era emigrato in Galles all’età di sei anni, da solo, per raggiungere i suoi genitori che a Cardiff erano andati a lavorare. Fu la nonna paterna che accompagnò il piccolo Giorgio alla stazione di Milano, lo fece salire su un treno con un biglietto per Londra, un fagottello con il mangiare per un paio di giorni e un cartello al collo con su scritto “Mi chiamo Giorgio Chinaglia e devo scendere a Londra, se mi addormento per favore svegliatemi”.

Giorgio alla stazione di Londra fu svegliato, si ricongiunse alla sua famiglia e in Gran Bretagna rimase fino a quando il calcio non lo riportò in Italia, questa volta da vincitore. Infatti Chinaglia si vedeva benissimo che aveva imparato a giocare al calcio in Inghilterra, dal modo di giocare, mentre la forza del carattere gli veniva dalla sua esperienza di emigrato povero che cerca il riscatto da tanta miseria e da tante umiliazioni.

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Insomma Chinaglia fu un personaggio unico, leale e coraggioso (non ebbe mai una giornata di squalifica), irruente e rissoso ma soltanto fuori dal campo. Passò alla storia non soltanto per aver dato il suo carattere forte alla Lazio di Maestrelli e per aver vinto uno scudetto e quattro derby consecutivi, ma anche per aver mandato a quel paese in mondovisione il commissario tecnico della nazionale italiana, Ferruccio Valcareggi.


I laziali impazzirono per lui, il presidente Lenzini rifiutò cifre da capogiro pur di tenerlo alla Lazio ma lui a un certo punto salutò tutti e se ne andò in America, per giocare nei Cosmos una squadra dove andò a svernare anche Pelè e che si esibiva nel mondo alla maniera dei Globe Trotters. Ritornò quando seppe che il suo padre-maestro Tommaso Maestrelli era gravemente malato e la Lazio era in difficoltà. Poi le strade si separarono definitivamente, di lui si favoleggiava di posti da grande manager nel grattacielo della Warner, la multinazionale dello spettacolo che aveva inventato anche i Cosmos. Ma questi posti favolosi non arrivarono mai e Giorgio rimase sempre legato al mondo del calcio italiano, con un piede in America ma con la mente rivolta all’Italia, dove era nato a Carrara nel 1947.


Ma la vita della vecchia gloria non faceva per lui, abituato ad essere protagonista. E alla Lazio ritornò da presidente e proprietario promettendo ai tifosi impazziti danaro e gloria. Se ne andò dopo due anni, lasciando la società nel disastro finanziario e la squadra retrocessa, a pochi anni dallo scudetto.

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Ritornò venti anni dopo, come in un romanzo di Dumas, per riprendersi la Lazio, questa volta inserito in una operazione dai contorni poco chiari che finì per lui con un mandato di cattura internazionale. “Quantum mutatus ab illo” dissero i laziali che si ricordavano un po’ di latino e soprattutto ricordavano un Chinaglia diverso, quello che incedeva con l’indice alzato verso la curva della Roma, quello che portava la Lazio alla conquista dello scudetto, quello che prendeva a calci nel sedere il giovane D’Amico, reo di non impegnarsi abbastanza. Quel Chinaglia che per i laziali era stato sempre “il grido di battaglia”, o Long John per la sua imponenza fisica ma anche per il suo amore per il whisky.


La morte, per problemi cardiaci lo ha accolto in Florida, il posto dove vanno svernare i ricchi americani, ma lui non era ricco e soprattutto non accettava l’inverno della vita. Insieme a Pelè stava cercando di ricostruire i Cosmos e di rilanciare il “soccer” in America.


Noi laziali lo ricorderemo sempre con il dito alzato verso la Curva Sud, mentre il portiere della Roma raccoglie la “palla dal sacco” come dicevano i vecchi cronisti di calcio, e mentre abbraccia Tommaso Maestrelli, alla fine di quel Lazio-Foggia che ci consegnò il nostro primo scudetto, bello e indimenticabile come il primo amore.

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