Dorando Pietri: il maratoneta che non vinse le Olimpiadi di Londra ma entrò nella storia

Dorando Pietri aveva vinto le Olimpiadi di Londra ma fu squalificato perché arrivato stremato fu aiutato dai giudici a rialzarsi. Ma entrò nella leggenda

Dorando Pietri: il maratoneta che non vinse le Olimpiadi di Londra ma entrò nella storia
Dorando Pietri
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24 Luglio 2023 - 09.03


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Figlio di contadini, proprio come Carlo Airoldi, anche Dorando iniziò a mostrare una grande forza nelle maratone, seguendo le orme del predecessore qualche anno dopo.

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Entrambi provenivano da famiglie di contadini, ma mentre i genitori di Dorando si dedicavano al commercio di frutta e verdura, quelli di Carlo gestivano un negozio di ferramenta.

Carlo Airoldi partecipò alla prima Olimpiade nel 1896 ad Atene, mentre Dorando avrebbe vissuto la sua quarta Olimpiade a Londra nel 1908.

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La storia di Carlo Airoldi è poco conosciuta da molti, mentre quella di Dorando divenne presto famosa in tutto il mondo.

Le fotografie raccontano tutto: l’arrivo, lo smarrimento, lo sfinimento, l’aiuto fatale, la medaglia persa e, forse, la vita salvata.

Le testate giornalistiche all’epoca titolarono “Dorando Pietri perde, ma vince”, e ancora oggi utilizzano le stesse foto, che non sempre sono appropriate.

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Ma c’è un’altra storia di Dorando Pietri, una storia che è giusto ricordare a chi l’ha dimenticata e raccontare a chi ancora non la conosce.

Tutto sembrò iniziare per caso. Da giovane, a soli 14 anni, Dorando iniziò a lavorare come garzone in una pasticceria a Carpi, dove la sua famiglia si era trasferita quando aveva poco più di tre anni. Un piccolo spostamento da Correggio, ma il padre di Dorando aveva buone ragioni per aprire lì il negozio.

Lavorare fin da ragazzo era normale all’epoca, e Dorando si appassionò alla bicicletta. Erano gli anni di Luigi Ganna, il “Re del Fango”, figlio di agricoltori, e forse si sentiva attratto anche per questa affinità.

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Si dice che un giorno, durante una corsa a Carpi, Dorando fosse colto dallo spirito della competizione e si unisse alla gara, vestito come era per lavoro. Sorprendentemente, riuscì a tenere il passo con Pericle Pagliani, un corridore già famoso. Chissà cosa pensò Dorando in quel momento, cosa vide per il suo futuro.

Dorando iniziò a correre sempre di più, lasciando pian piano la bicicletta. Si allenò e gareggiò, e vinse con facilità. Poi arrivò il servizio militare, e anche lì mostrò il suo talento nelle gare, vincendo in diverse discipline, dal mezzofondo alla maratona.

Nel 1907 Dorando divenne primatista italiano nei 5.000 e campione nei 20.000. Nel luglio del 1908, fece un tempo nazionale sulla maratona a Carpi, guadagnandosi il viaggio a Londra per la IV Olimpiade.

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Dopo quella memorabile giornata londinese del 24 luglio 1908, in cui il titolo olimpico fu assegnato al newyorkese John Hayes, il destino di Dorando Pietri prese una piega diversa. Pur avendo staccato Hayes di oltre 10 minuti, la squadra americana presentò un ricorso sostenendo che l’aiuto ricevuto in pista da Dorando era irregolare. Il ricorso fu accolto, e così Hayes venne proclamato vincitore. Sul giusto o sbagliato della decisione possiamo discutere, ma la storia ci ha insegnato che spesso la verità è soggettiva e sfumata.

Dorando divenne famoso dopo l’episodio di Londra, e molti vollero risarcirlo per il suo sfortunato episodio. Ricevette una bella coppa dalla Principessa di Galles, Arthur Conan-Doyle lanciò una sottoscrizione a suo favore, a cui partecipò come primo donatore, e in Italia furono lanciate altre iniziative simili. Nonostante la delusione, l’affetto, la simpatia e anche qualche sostegno finanziario lo aiutarono a rialzarsi.

Ma la fama portò con sé nuove opportunità. Dagli Stati Uniti giunsero una serie di inviti per partecipare a competizioni-spettacolo, tutte con consistenti premi in denaro, alcune delle quali prevedevano uno scontro diretto con il vincitore di Londra, John Hayes. Dorando Pietri era un uomo che non temeva nessuno e, ancor meno, attraversare l’Oceano per sfidare Hayes di nuovo. La sua determinazione era chiara: perdere non era più un’opzione.

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Così, i duellanti si sarebbero incontrati nuovamente, pronti a scrivere un nuovo capitolo di questa storia avvincente tra due grandi atleti.

Sono passati appena quattro mesi da quel 24 luglio. Ora Dorando è in pista, al Madison Square Garden di New York, ed è il 25 novembre. Sulle tribune sono presenti 20.000 persone, forse altrettante fuori che non sono riuscite a entrare. Molti italiani, ancora poco familiari con l’inglese, sono lì per tifare per lui. Ma molti più newyorkesi sono dalla parte del campione di casa, Hayes.

Questa è una maratona anomala, su pista, ma con la stessa distanza di quella su strada. Entrambi i corridori sono sicuri di sé. Il via viene dato e inizia la lunga corsa di 42.195 metri, ognuno insegue l’altro. Nessuno cede, nessuno molla. Poi, in un attimo, accade tutto. Gli ultimi 500 metri, la spinta finale.

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“Dorandooo, Dorandooo, Dorandooo!!!” Gli italiani sugli spalti sono tutti in piedi, esplodono di gioia, cuore e occhi gonfi, braccia al cielo. Hayes rimane indietro e non riesce più a raggiungere Dorando. È una vittoria trionfale!

A Dorando piace vincere, ed è un uomo vero. Il fatto è che vince facile. Tra mezzofondo e maratone, su 22 corse americane ne vince 17. Ovunque va trova italiani che lo accolgono e lo sostengono, gridando il suo nome con passione.

Corre, ma per loro è anche la casa lasciata, la famiglia divisa, gli amici dispersi. Gli italiani lo amano, tutti. E lui li ama in cambio.

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Il 15 marzo 1909, la tournée americana sta per concludersi. Ancora una volta incontra Hayes, ma ancora una volta non c’è storia. O meglio, la storia è solo la sua.

A maggio torna in Italia. Continua a correre ancora per un paio d’anni. L’ultima maratona è nel 1910 a Buenos Aires, l’ultima gara in Italia sono i 15 km a Parma il 3 settembre 1911, e l’ultima all’estero è il 15 ottobre a Göteborg.

Ha 26 anni, aveva corso tanto, aveva vinto tanto e ha guadagnato tanto. Ora poteva fare altro. La sua carriera di atleta era stata straordinaria e indimenticabile.

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Dorando aprì un albergo nel 1911, un bel palazzo nella piazza centrale di Carpi. Era una bella rivincita per lui, che era stato un semplice garzone di pasticceria. Coinvolse suo fratello, e sembrava che il mondo gli sorridesse, ma non sempre le cose vanno come previsto.

Poi arrivò la Grande Guerra, con le sue trincee, il gas e la carne da cannone. Dorando venne richiamato e respirò l’aria della guerra, ma ciò che accadde veramente là dentro era difficile da capire. Al suo ritorno, non sembrava più lo stesso, il suo cuore era stato consumato dal conflitto.

Le cose a Carpi non andavano bene. Nel 1917, dovette vendere il palazzo in piazza e aprì un’officina di riparazione auto con servizio di noleggio con conducente, un’idea innovativa per l’epoca. La guerra finì, ma non del tutto.

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I reduci tornarono a casa, desiderosi di ottenere la terra che era stata loro promessa. Ma molti di loro non videro mai questo sogno realizzarsi, e morirono con la speranza nel cuore.

Il mondo stava cambiando, e Dorando fece la sua scelta. Nel 1921, si unì ai Fasci Italiani di Combattimento, diventando un fascista della prima ora. Si trovò coinvolto in azioni violente, e il suo nome fu associato a episodi in cui caddero delle vittime.

Il 1922 vide l’arrivo della Marcia su Roma, e sembrava che tutto fosse dimenticato. Ma nei piccoli centri come Carpi, la memoria persisteva, e i rancori duravano nel tempo. Così, Dorando decise di trasferirsi a San Remo per ricominciare una nuova vita e continuare con il suo lavoro.

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Lo sport, che una volta lo aveva celebrato come eroe, lo mise da parte. La sconfitta a Londra gli aveva tolto quell’aura di vittoria, e il suo sfruttare la notorietà di quella sconfitta non andava più bene agli occhi del pubblico.

Nonostante tutto, la vita andava avanti, e Dorando non cambiava idea. Si sposò, ma non ebbe figli. Tuttavia, crebbe con amore Gina, la figlia della sorella di sua moglie.

Nel 1933, scrisse il testamento e lo mise da parte. Quando fu aperto nel 1942, Dorando aveva 56 anni. Non lo aveva portato via il cuore, ma un’emorragia cerebrale.

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Tutto era scritto nel testamento, anche la sua volontà di essere sepolto in camicia nera. La Storia avrebbe poi deciso se la sua scelta era stata giusta o sbagliata.

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