Mondiali in Qatar, un calcio ai diritti umani: perché Globalist ha scelto di non scrivere sulle partite

Globalist non parlerà di calcio ma dell’altro mondiale”: quello del racconto di cosa è il Qatar e la sua potenza finanziaria. E di come la ricchissima petromonarchia calpesta sistematicamente i diritti umani

Mondiali in Qatar, un calcio ai diritti umani: perché Globalist ha scelto di non scrivere sulle partite
I mondiali di calcio nel Qatar
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

18 Novembre 2022 - 16.09


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Si sono comprati i mondiali di calcio, ma non le nostre coscienze. Per questo Globalist ha deciso di dare conto dell’”altro mondiale” nei giorni, a partire da domenica 20 Novembre, in cui tutte le televisioni del pianeta e le pagine dei giornali saranno piene di servizi sulle partite. L’”altro mondiale” di Globalist è quello del racconto di cosa è il Qatar e la sua potenza finanziaria. E di come la ricchissima petromonarchia che lì regna calpesta sistematicamente i diritti umani.

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L’altro Qatar

Ad accompagnarci in questo inizio viaggio è Stefano Nanni. Che in documentato report per Altreconomia “Qui si farà la storia” scrivono gli organizzatori dei Campionati mondiali di calcio 2022in partenza in Qatar il 20 novembre. È uno degli slogan scelti dal governo che ospita la XXII edizione della manifestazione sportiva più seguita al mondo. La storia, in realtà, è già stata fatta: questi saranno i primi campionati in Medio Oriente e, sempre per la prima volta, le partite si giocheranno non in estate, come da tradizione, ma in inverno. Per far sì che queste “prime volte” si tramutassero in “successo” sono stati costruiti e rinnovati otto stadi che ospiteranno circa 1,2 milioni tra tifosi, giornalisti, membri delle squadre, per un investimento pari a quasi sei miliardi di euro. Numeri stellari dietro i quali c’è molto altro di cui, soprattutto in Italia, si è parlato a malapena. Fanno eccezione le voci di Valerio Moggia, autore del blog “Pallonate in faccia”, e di Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International in Italia, rispettivamente autori dei libri “La Coppa del Morto” (Ultra Sport) e “Qatar 2022, i Mondiali dello sfruttamento” (Infinito Edizioni). Partendo da punti di vista diversi, entrambi cercano di fare luce su ciò che è in realtà Qatar 2022. In primis, affrontano la condizione precaria di oltre due milioni di lavoratori migranti da Asia e Africa, che costituiscono il 90% della forza lavoro dell’emirato. E in secondo luogo la questione dei diritti, negati non solo ai lavoratori, ma anche alle minoranze nel Paese, alle donne, alla comunità LGBTQ+, senza tralasciare il devastante impatto ambientale relativo alla costruzione degli stadi e al loro funzionamento.

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Per capire come è iniziata “la storia di un Mondiale che non dovrebbe esistere”, come la definisce Moggia, occorre tornare indietro di diversi anni. “Siamo di fronte alla ‘lungimiranza’ della famiglia Al Thani, di fatto i proprietari e governanti del Qatar, che già dagli anni settanta iniziano a rendersi conto che gas e petrolio, di cui sono ricchi e che esportano in tutto il mondo, non sarebbero durati per sempre. E, quindi, sfruttando una quantità inimmaginabile di soldi, intraprendono un lungo percorso di diversificazione economica e costruzione di un’immagine positiva agli occhi dei consumatori dei diversi settori, inclusi i tifosi nel caso dello sport”. Barclays, Volkswagen, Porsche, Total, ma anche le italiane Leonardo e Air Italy, sono solo alcune delle multinazionali con cui Doha comincia a fare affari. Ma è dal 2008 in poi che l’ascesa del Qatar all’interno dell’economia occidentale subisce un’accelerazione. “I qatarioti arrivano nel momento in cui le economie europee e statunitensi soffrono di una crisi di liquidità -spiega Moggia ad Altreconomia-. Considerando le prospettive di ritorno economico, ne ha approfittato anche il calcio ma così facendo ha messo in secondo piano i diritti umani”. E così si arriva al 2010, quando tra coincidenze e presunti casi di corruzione mai definitivamente appurati, al Qatar vengono assegnati i Mondiali del 2022. Gli affari degli Al Thani sono proseguiti, poi, con la creazione della piattaforma multimediale BeIN Sports, oggi il principale intermediario per la cessione dei diritti televisivi delle competizioni europee nel mondo arabo, e l’acquisizione della squadra francese del Paris Saint-Germain nel 2011.

“Siamo di fronte al trionfo dello sportwashing”, afferma Noury, che con Amnesty ha più volte denunciato pubblicamente le azioni del Qatar.Definendolo come una “strategia di pubbliche relazioni che utilizza eventi sportivi per ‘sbiancare’ la propria immagine in temi di diritti umani”, lo sportwashing è efficace “perché da un lato entusiasma i tifosi, a cui non necessariamente è richiesta una sensibilità sui diritti, mentre dall’altro separa l’evento sportivo dal contesto che lo circonda”. Da questo punto di vista secondo Noury la strategia del Qatar è stata un trionfo per altri due motivi, che riguardano tutta la regione del Golfo e chi fa affari con i loro governi. “Perché si ripeterà nel tempo con i giochi asiatici invernali del 2029 in Arabia Saudita, dove si scierà su dune di sabbia ricoperte di neve artificiale. E poi perché è la politica che ha reso possibile tutto questo”. Dunque, evidenzia, “non bisogna stupirsi se in Italia si è ritenuto opportuno giocare le partite di Supercoppa di Lega in Arabia Saudita nello stesso periodo in cui il governo italiano inviava armi ai sauditi per fare la guerra in Yemen, uccidendo migliaia di civili, tra cui moltissimi bambini”…

Così Nanni.

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Portavoce coraggioso

I lettori di Globalist conoscono molto bene Riccardo Noury, storico portavoce di Amnesty International Italia.  Lo conoscono attraverso gli articoli e le interviste che ha concesso a chi scrive, che si onora di essergli amico, e per le tante battaglie in difesa dei diritti umani delle quali è stato protagonista.

Ora Riccardo ha scritto un libro che vale la pena di leggere. Come un prezioso vademecum ai Mondiali. Quello che un tempo si sarebbe detto una straordinaria, per qualità e documentazione, opera di controinformazione. “Secondo i dati pubblicati dall’Autorità per la pianificazione e le statistiche, dal 2010 al 2019 sono morti 15.021 lavoratori stranieri di ogni età e occupazione. Di questi, 9.405 (il 63 per cento) erano di origine asiatica, in gran parte (l’87 per cento) uomini. “Ma il numero reale non  lo sapremo mai” dice Noury in una bella conversazione con Domenico Guarino su luce.lanazione.it, in quanto “erano persone che non avevano tantissimi legami sociali in Qatar, dove vige il divieto di costituirsi in sindacati. E con una rete di legami molto labile è difficile recuperare un’anagrafe completa di chi è rimasto ucciso in questi anni”. Stando a quanto ha ricostruito recentemente il quotidiano “The Guardian” siamo comunque di fronte a circa 6.500 vittime accertate, causate dalle condizioni di sfruttamento estremo e  dai colpi di caldo. Per il Qatar la massima parte di loro sarebbe deceduta per problemi “cardio-circolatori, quindi una causa naturale per cui non si è ritenuto di dover effettuare nessun approfondimento, e non è stato stanziato alcun risarcimento.

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 “Il problema – dice Noury – è che in realtà i mondiali i Calcio del 2022 sono figli di una logica prettamente economica, ancor più che le altre edizioni di una kermesse globale che muove enormi interessi e dunque enormi capitali. Peccato che a fronte della prospettiva di enormi guadagni, la questione dei diritti umani, notoriamente precaria in Qatar, sia stata totalmente sottaciuta”. Una responsabilità che, secondo il portavoce di Amnesty International, “chiama direttamente in causa la Fifa, visto che è lei ad avergli assegnato i mondiali. Quello che accade dopo è anche una sua ben precisa responsabilità”. Ma chiama direttamente in causa anche la stampa internazionale che, per non urtare la sensibilità dei tifosi, e per veicolare un’immagine positiva del Paese ospitante e dell’evento, hanno preferito girarsi in gran parte dell’altra parte, ignorando o banalizzando i problemi.

 “Si vuole costruire l’immagine della ‘prima volta’ in un paese del mondo arabo, un’idea affascinante, orientalista. Ma non ci troviamo di fronte a un’intenzione genuina, questi mondiali non si giocano in Qatar 

per dimostrare che anche i Paesi Arabi sono in grado di poterli organizzare” prosegue Noury. E aggiunge: “In realtà si tratta soltanto di un’operazione di sport washing, dove la polvere viene messa sotto al tappeto”. Ora però tutti gli attori dei media e della politica sportiva hanno una grande opportunità. “Quella – dice ancora Noury – di raccontare il Paese attraverso gli inviati sul posto, cogliere l’occasione per parlare di diritti umani, non solo legati allo sfruttamento del lavoro, con un occhio attento a quello che può succedere in quel mese e mezzo rispetto al diritto di protesta, alle manifestazioni pubbliche da parte di minoranze quotidianamente e da troppo tempo discriminate. Comprese le 32 Nazionali di calcio che parteciperanno alla competizione – dal 20 novembre al 18 dicembre -, le cui prese di posizione sono state assolutamente nulle. Tranne rarissime eccezioni, come quella dell’ex capitano del Bayern Monaco e della Germania campione del mondo nel 2014 Philipp Lahm, che ha deciso di non far parte della delegazione tedesca in Qatar motivando così la sua scelta: “I diritti umani devono avere un ruolo maggiore nell’assegnazione delle manifestazioni. Non dovrebbe succedere di nuovo in futuro. I diritti umani, le dimensioni del Paese: tutto questo, a quanto pare, non è stato preso in considerazione. E i giocatori non possono far finta di non saperlo”.

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Tempo scaduto

Commentando la notizia che il presidente della Federazione internazionale delle associazioni calcistiche (Fifa), Gianni Infantino, ha scritto alle 32 nazionali finaliste dei Mondiali di calcio del 2022 sollecitandole a “concentrarsi sul calcio” lasciando da parte questioni relative ai diritti umani, il direttore del Programma giustizia sociale ed economica di Amnesty International, Steve Cockburn, ha diffuso la seguente dichiarazione:

“Se Gianni Infantino vuole che il mondo ‘si concentri sul calcio’, la soluzione è semplice: la Fifa inizi finalmente ad occuparsi delle gravi questioni riguardanti i diritti umani anziché spazzarle sotto il tappeto. Ad esempio, s’impegni pubblicamente a istituire, prima del fischio d’inizio, un fondo per risarcire i lavoratori migranti e assicuri che le persone Lgbtqia+ non subiranno discriminazioni e minacce. È incredibile che ciò non sia stato ancora fatto”.

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“Gianni Infantino ha ragione quando dice che ‘il calcio non vive sottovuoto’: infatti centinaia di migliaia di lavoratori hanno subito violazioni dei diritti umani per rendere possibile lo svolgimento dei Mondiali di calcio in Qatar e i loro diritti non possono essere dimenticati o messi da parte. Meritano giustizia e risarcimenti e non parole vuote. Il tempo sta scadendo”.

Il tempo è scaduto. Il Mondiale sta per partire. Un calcio ai diritti umani. Una partita che Globalist giocherà a modo suo.   

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