Zigoni: "Da bambino ero più forte di Pelè, ma più del calcio amavo Gesù e Che Guevara

Parla Gianfranco Zigoni e racconta il calcio e la vita secondo Zigo-gol, il giocatore anarchico e ribelle

Zigoni: "Da bambino ero più forte di Pelè, ma più del calcio amavo Gesù e Che Guevara
Gianfranco Zigoni
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Antonello Sette Modifica articolo

18 Ottobre 2022 - 11.32


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“Ho cominciato nella squadra dell’oratorio di Opitergium, come si chiamava allora il mio paese, una antichissima colonia romana, dispersa nel trevigiano, che ora si chiama più prosaicamente Oderzo. Ero ancora un bambino”, racconta Gianfranco Zigoni in un’intervista di Antonello Sette per Il Foglio, “quando un osservatore mi ha visto giocare e mi ha portato a Pordenone, che era, a quei tempi, una sorta di vivaio della Juventus. Non credo di dovergli riconoscere particolari meriti, perché ero così forte che mi avrebbe scoperto anche un cieco”.

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Questa è la storia di uno di noi. La storia di Zigo-gol, il più anarchico e ribelle di quanti, a memoria d’uomo, hanno professionalmente preso a calci un pallone. La prima partita in serie A l’ha giocata a 17 anni e 15 giorni. Udinese batte Juventus 2 a 1…

“Sì, purtroppo l’abbiamo persa. L’impatto non è stato facile. Un anno prima giocavo ancora nella squadra dell’oratorio, perché il Pordenone era allora, più o meno, a quel livello. Però, fui io a passare la palla a Bruno Nicolè, facendogli segnare il gol con cui eravamo passati in vantaggio. E, poi, indossavo la maglia numero 10, quella che era stata di Omar Sivori, per me, insieme a Maradona, il più grande di tutti i tempi, anche se Ferruccio Valcareggi mi diceva che l’inarrivabile restava Valentino Mazzola”.

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Da ragazzo era passato dalla fionda alla pistola…

Sì, andavo in giro con una Smith Wesson nascosta nella cintura dei pantaloni e, durante i ritiri, mi divertivo a mirare i lampioni. Poi, un giorno sono andato a caccia e ho centrato un merlo con uno dei miei due fucili. L’ho visto cadere. Mi sono avvicinato per raccoglierlo. Ero convinto che potesse riprendere il volo. L’avevo, invece, ferito a morte a morte e mi guardava con uno stupore, che non dimenticherò, finché campo. Lo finii per non farlo soffrire e ancor oggi, ogni volta che ci ripenso, sento un brivido e mi vengono, come in questo momento, le lacrime agli occhi. Fu l’ultimo colpo che ho sparato in vita mia. I fucili e la pistola li ho regalati”.

Juventus, con cui ha vinto uno scudetto nel ’67, Genoa, Roma e Verona. A quale squadra è rimasto più affezionato?

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“Roma e Verona, senza alcun dubbio, anche se sono nato tifoso dell’Inter e il mio primo idolo era stato Lennart Skoglund”.

L’hanno definita anarchico e massacratore del sistema…

Un po’ anarchico lo sono sempre stato. Un anarchico, però, con dei paletti. Io accetto tutto, meno che un uomo faccia del male a un altro uomo. La guerra, che si combatte in Ucraina, ha dell’incredibile. Ogni mattina, quando mi sveglio, mi domando se sia tutto vero. La libertà è sacra, ma ha dei limiti invalicabili”.

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Massacratore del sistema?

“Il sistema non mi piace. Né quello che governa il calcio, né quello che sovrintende ai destini del mondo. Gesù è venuto sulla Terra per insegnarci a comportarci nel modo giusto, ma noi non abbiamo imparato niente. Io penso che ci siano stati solo due giusti. L’altro è stato Che Guevara. Li hanno fatti fuori tutti e due”.

Il suo sogno era davvero quello di morire sul campo e che Sandro Ciotti chiedesse la linea dallo Zigoni, fu Bentegodi, di Verona?

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“E’ assolutamente vero. Tanto una volta si deve morire. Non capisco, però, perché bisogna per forza aspettare che io mi trasferisca definitivamente nell’aldilà. Potrebbero intitolarmelo anche da vivo. Del resto, c’è già una squadra di seconda categoria, che si chiama Zigoni”.

Come se non bastassero Gesù e Che Guevara, anche Padre Pio da Pietralcina ha fatto capolino nella sua vita…

“Avevo otto anni. Mia madre stava morendo. Mio padre e qualcuno dei miei fratelli più grandi avevano scritto una lettera a Padre Pio. Ci rispose. Mia madre riprese a vivere. Non so se sia stato un miracolo a tutti gli effetti. Per noi, sicuramente sì”.

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Lei nell’immaginario collettivo è quello che è andato in panchina indossando una pelliccia…

“Ancora non capisco le ragioni dello scandalo. Avevo una bellissima pelliccia di lupo, che mi era stata regalata da una tifosa più ricca di me. Prima della partita con la Fiorentina, Valcareggi mi comunicò che non avrei giocato, visto che avevano vinto quella precedente, in cui era rimasto fuori perché, mi avevano, tanto per cambiare, squalificato. Io ero un espulso seriale, perché, a latere della partita ufficiale, ne giocavo una mia personale contro le ingiustizie degli arbitri. Chiesi al mister se stesse scherzando o fosse impazzito. Uno dei più grandi giocatori del mondo in panchina? Se è così mister, vedrà qualcosa che occhi umani non hanno ancora mai visto. E mi sedetti in panchina con la pelliccia di lupo e un cappello da cowboy”.

A proposito di squalifiche, il loro numero ha superato, nel suo caso, quello dei gol?

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“Il sorpasso ci sarebbe sicuramente stato, se mi avessero squalificato tutte le volte che avrebbero dovuto. Una volta, indirizzai a un arbitro, di cui non faccio il nome perché non c’è più, insulti di ogni ordine grado, impegnandomi a non tralasciarne neppure uno. Alla fine della partita, mi preannunciò dieci giornate di squalifica, ma poi nel referto non dedicò ai miei insulti scomposti neppure una riga. Tenga presente che, se non fosse stato per l’allora vicepresidente del Genoa Renzo Fossati, che riuscì a trattenermi, quell’arbitro l’avrei picchiato senza pensarci su. Mi graziò perché aveva capito che in campo l’aveva fatta grossa, facendoci perdere una partita e, di conseguenza, retrocedere in serie B”.

Una volta si prese a pugni con Heriberto Herrera…

“Contrariamente a quanto si tramanda, il pugno fui io a riceverlo. La sera prima avevamo vinto una partita in Coppa dei Campioni e lui mi tirò giù dal letto alle sette del mattino, invitandomi ad andare immediatamente ad allenarmi perché non avevo rincorso il mio difensore, che per tre volte si era sganciato dalla marcatura. Reagii afferrandolo allo stomaco e gridandogli “figlio di puta”. Al di là di questo leggendario scontro, era una gran brava persona, come nel calcio ne ho incontrate poche”.

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Continua a pensare di essere stato più forte di Pelè?

“Da bambino sono stato più forte di Pelè e di qualsiasi altro. Quando giocavo a pallone nel bronx nel mio paese, erano sempre in sette contro di me. Non sono diventato più forte di Pelè anche da grande, perché ho messo la mia libertà davanti ai sacrifici. Il calcio non l’ho mai amato sino in fondo. Oltre gli allenamenti, non potevi fare niente, neppure mangiare e bere e, men che mai, passare la notte con gli amici. Mi sarebbe piaciuto giocare in Inghilterra. Ricordo che andammo lì a disputare una partita con la Juventus. Noi venivamo da due giorni di ritiro. Loro sono arrivati al campo in motorino, sottobraccio alle mogli e alle morose, si sono cambiati e ci hanno rifilato quattro gol”.

Dalla Porche alla bici. Da idolo delle folle a allenatore dei bambini…

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“Io per i bambini mi getterei nel fuoco. Il calcio per loro dovrebbe solo un gioco e, invece, troppi genitori li assillano pretendendo che arrivino a calcare i campi della serie A. Da otto anni alleno solo figli e nipotini. Il più piccolo, che di anni ne ha otto, avrei voluto che giocasse a rugby, che amo più del calcio. Lui ha scelto la palla rotonda ed è già uno zigoncino. I bambini sono l’anima vera del mondo. Siamo noi che li roviniamo con le nostre ansie adulte”.

Oggi per chi tifa?

“Vorrei che il campionato lo vincesse la Roma e, in seconda battuta, sarei contento se ad arrivare prima fosse la Lazio perché il nuovo portiere l’ho cresciuto io. Ivan Provedel sono andato a prenderlo a Cecchini di Pasiano e l’ho portato a Basalghelle, un paesino ancora più piccolo del suo. E’ stato con me tre anni. All’inizio giocava all’attacco o in difesa, ma lui insisteva di voler mettersi in porta. Con quella piccola squadra di paese siamo andati in Croazia per un torneo che vincemmo. Lui giocò in porta, nell’unico ruolo che gli era sempre piaciuto. Da Basalghelle si trasferì a Treviso, dove non lo facevano giocare in porta perché il portiere designato era il figlio del Presidente. Poi finalmente è diventato solo un portiere. Un grandissimo portiere. A Udine, Chievo, a La Spezia. Non capisco le altre squadre chi vanno a cercare. La Lazio ha centrato un acquisto eccezionale. Provedel con i piedi in Italia è già il numero uno.  Con le mani lo sta per diventare. Ha coraggio, fisico e temperamento. Se Roberto Mancini non lo convoca in Nazionale, vorrebbe dire che di portieri non ne capisce nulla”.

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Le piace il calcio di oggi?

“Non mi piaceva neppure quando giocavo io ed era molto più serio. Pensi come mi può piacere ora. Quello, almeno nella mia testa, era un calcio dilettantistico. Per me giocare in Nazionale o a Piavon, in terza categoria, era la stessa cosa. Io non guardo più le partite, eccetto quella che una volta all’anno la Roma gioca a Udine e sono ancora scioccato per i quattro gol dell’ultima disfatta”.

E dei giocatori che cosa pensa?

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“Mamma mia, non hanno né orgoglio, né dignità. Basta che li sfiori, si rotolano per terra, con le mai a coprire la vergogna del volto stravolto. Io mi rialzavo subito, perché non volevo dare all’avversario la soddisfazione di essere riuscito a farmi male”.

E gli arbitri?

Non sopporto neppure loro. Non credo che tutta la categoria sia onesta, come vorrebbero far credere. Mi domando ancora come si fa a non dare certi rigori, come quello che spettava alla Lazio per la manata in faccia a Lazzari contro il Napoli. Dovrebbero arbitrare tutte le partite Gesù o Che Ghevara, ma evidentemente non è possibile”. 

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Rimpianti?

“L’unico rimpianto è di aver ripagato la passione dei tifosi meno di quanto meritassero. Avrei potuto dare di più”.

Sogna ancora?

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“Vivo quel che resta della mia vita, come meglio mi riesce. Ne capisco sempre meno il senso e mi rattristo quando se ne va qualcuno, che ha giocato con me. Qualche giorno fa è toccato a Giorgio Maioli, la mezzala mio compagno nel Verona. E, prima di lui, a una persona meravigliosa, come Franco Scaratti della Roma e, purtroppo, a tanti altri. Ora che ci penso, un sogno ce l’ho ancora. Cuore di padre non mente. Vorrei che la Juve Stabia fosse promossa in serie B e che mio figlio Gianmarco segnasse tanti gol”.

Come vorrebbe essere ricordato?

“Come una persona onesta. L’onestà, mi creda, racchiude tutto il resto”.

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