Rai, tanto rumore per nulla: solite facce e soliti programmi

Quella presentata da Fuortes come una sorta di rivoluzione è, in realtà, solo un cambio di forma ma non di sostanza. Una programmazione che sa di antico con i soliti volti e i soliti programmi.

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6 Luglio 2022 - 00.57 Culture


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Di Agostino Forgione

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La nuova programmazione del palinsesto autunnale e invernale della Rai è stata da poco presentata. La novità maggiore, presentata dall’Ad Carlo Fuortes, riguarda la nuova programmazione per generi, definita da quest’ultimo come una “rivoluzione”. È la prima volta, infatti, che i palinsesti dei canali Rai sono programmati secondo i generi d’appartenenza dei programmi e non, come è avvenuto finora, per rete. Dieci le direzioni che si occuperanno di produrre contenuti da diffondere su canali e piattaforme: Approfondimento, Cinema e serie tv, Cultura ed Educational, Documentari, Fiction, Intrattenimento Day Time, Intrattenimento Prime time, Kids, RaiPlay e Sport.

Un modello già adottato dai principali broadcaster europei che, come comunicato dalla Rai «costituisce un fondamentale momento di discontinuità e un punto di ripartenza ineludibile per l’azienda, accelerando il processo di trasformazione digitale quale requisito necessario al mantenimento del ruolo centrale di servizio pubblico in un contesto multipiattaforma». Non più, dunque, un palinsesto ragionato sulla singola rete, bensì una strategia che permetta di «lavorare sui prodotti e sui contenuti che potranno essere fruiti attraverso i molti e diversi canali della comunicazione contemporanea».

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Poi Fuortes pronuncia parole che suonano ancora più altisonanti: «Accanto a me vedete dieci direttori: fino a ieri ci sarebbero stati solo i tre direttori di rete. Oggi siamo di fronte  a un epocale cambio di paradigma”. Ma è veramente così? A visionare la Presentazione dell’offerta, consultabile qui, l’impressione è che ci sia pure qualcosa di nuovo, ma che, in effetti, i format e i nomi proposti siano per lo più quelli di sempre. Sebbene l’organizzazione per generi verrà completamente affidata alle relative Direzioni solo con il varo del prossimo palinsesto estivo, ad ora è assai difficile scorgere delle novità che lascino pensare a un vero cambio di rotta dei contenuti proposti dall’Emittente Pubblica.

È proprio partendo da questa riflessione che è possibile constatare come, ad esempio, le serie tv di punta in prima serata, chiaro e inequivocabile specchio dell’universo valoriale a cui la Rai è ancorata, nonostante il nuovo assetto continuino a essere legate a una marcata stereotipizzazione culturale. Così, pure quando l’intendo è quello di “svecchiare” i contenuti, di aprirsi al linguaggio dei giovani, la Rai continua a faro in un modo ingessato, stucchevole, in una maniera che i millennial, per capirci, definirebbero “da boomer”. Se c’è qualcosa che i dirigenti Rai avrebbero dovuto capire – già da un po’ – è, infatti, che quando qualcuno che non lo è prova a comportarsi come un giovane i risultati sono quasi sempre abbastanza tragicomici. Serie come “Un passo dal cielo” o “Che Dio ci aiuti” continuano a essere un chiaro monito di come provare a mettere assieme i precetti più conservatori, quelli che possono essere considerati come figli del cosiddetto – si notino bene le virgolette – “benpensiero italico”, assieme a un’altresì idealizzata narrazione di quello che è l’universo giovanile, produca inevitabilmente delle idiosincrasie che, volendo essere eufemistici, lasciano sorridere.

Una quantomeno vezzosa propensione, quella della Rai di volersi aprire ai nuovi linguaggi e modelli comunicativi, continuando però a incensare e innalzare gli altari più prestigiosi verso i “grandi” della tv italiana, che può essere letta come sintomatica di una marcata confusione interna. Se infatti la nascita di piattaforme come RaiPlay – su cui la Rai ha investito tanto ottenendo, di fatto, più che discreti risultati – e delle relative esclusive abbia fatto pensare a un reale cambio di rotta, è altresì vero che le punte di diamante a conduzione del palinsesto rimangano le stesse di quarant’anni fa. Che continuano a fare quello che avrebbero fatto quarant’anni fa come lo avrebbero fatto quarant’anni fa. Aprendo il catalogo dell’offerta prime time le prime pagine, quelle degli show di punta in prima serata, rimangono dedicate a conduttori che potrebbero essere tranquillamente i nonni dei ragazzi cui strizzano l’occhio. C’è Amadeus che col suo smaccato perbenismo da varietà anni ’70, spesso foriero di quasi surreali gag che diventano subito virali, continua a condurre Sanremo Giovani. C’è Gianni Morandi, con il suo one-man show che ripercorrerà – tanto per fare qualcosa di nuovo – i suoi 60 anni di carriera. È ci sono, giusto per fare altri due nomi, Maurizio Costanzo, l’ideatore del talkshow italiano, che con il ritorno di “S’è fatta notte” continua ad adulare le vecchie glorie del passato e Mara Maionchi, una sì amabile nonna, quella che in molti giustamente sognerebbero, che però pure alle volte pare avere il vezzo di rinnegare la propria età, con l’ovvio benestare di dirigenti e produttori.

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Cosa commentare, dunque, in conclusione a quanto scritto? Di certo, non che bisogni istituire una pensione per vecchie glorie in cui, ad esempio, la sopracitata Maionchi possa divertirsi a raccontare a un distratto Boldi divertenti aneddoti di gioventù, e neppure che i loro volti debbano essere estromessi dai palinsesti televisivi. Rappresentano di certo un pezzo di storia italiana, e nessuno di savio potrebbe mai affermare il contrario. L’unica illogicità è negare lustri e decenni, aspettandosi e chiedendo a qualcuno di due generazioni addietro di comportarsi come qualcuno che abbia quantomeno la metà degli anni.

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