Le poche cose che ora sappiamo con certezza del Covid 19
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Le poche cose che ora sappiamo con certezza del Covid 19

In sette mesi, dopo oltre 15 milioni di casi confermati nel mondo e quasi 630mila vittime, la scienza ha imparato diverse cose su di lui.

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25 Luglio 2020 - 10.05


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All’inizio di quest’anno il virus SARS-CoV-2 era ancora un perfetto sconosciuto. In sette mesi, dopo oltre 15 milioni di casi confermati nel mondo e quasi 630mila vittime, la scienza ha imparato diverse cose su di lui, anche se molto resta ancora da capire. In un articolo pubblicato su Intensive Care Medicine dal titolo “Ten things we learned about COVID-19”, tre studiosi italiani fanno il punto sulle 10 cose che abbiamo imparato di COVID-19, dalla natura del virus all’importanza di farsi trovare preparati alle sfide sanitarie che verranno.

Gli autori sono Maurizio Cecconi (responsabile Anestesia e Terapie Intensive Humanitas e docente Humanitas University), Guido Forni (Accademia Nazionale Dei Lincei) e Alberto Mantovani (direttore scientifico Humanitas e professore emerito Humanitas University), ed è interessante seguirli nella loro disamina su ciò che sappiamo su Covid-19: virus, infezione, comportamento del sistema immunitario, cosa fa scattare la risposta infiammatoria e perché possono insorgere trombosi.

Non solo: gli autori si soffermano sulle strategie diagnostiche, auspicando un uso su vasta scala dei tamponi e invitando alla cautela nella ‘giungla’ dei test sierologici, e passano in rassegna i risultati e le sfide sia nel campo delle cure che in quello dei vaccini. Con l’ultimo punto che è anche monito per il futuro: mai più farsi trovare così impreparati a un allarme pandemico. Di seguito i dieci punti nel dettaglio, tratti dalla pubblicazione su Intensive Care Medicine.

1. Conosciamo di più il virus

Il virus SARS-CoV-2 è una particella sferica che al suo interno contiene un filamento di RNA di circa 30.000 basi. Un sistema di correzione impedisce che questo genoma, relativamente grande per un virus a RNA, accumuli mutazioni con alta frequenza. Una proteina che protrude all’esterno della particella virale, la proteina Spike, forma una specie di corona intorno alla particella virale, donde il nome di coronavirus. L’area più esterna della proteina Spike si lega con molta precisione ad un enzima (l’ACE2), enzima che è normalmente presente sulla membrana di numerose cellule del corpo umano e particolarmente di quelle del tratto respiratorio superiore e del polmone. Se la particella virale si lega alla superficie della cellula, altri due enzimi (Furin e TMPRLRS), anche questi normalmente presenti sulle membrane delle cellule umane, tagliano la proteina Spike e permettono la fusione del virus con la membrana della cellula. Grazie a questa fusione, l’RNA del virus SARS-CoV-2 penetra nella cellula che immediatamente inizia a produrre le proteine virali. Dopo poco tempo la cellula infetta muore rilasciando nel microambiente milioni di nuove particelle virali s che infettano altre cellule e altri individui.

2. Come si sviluppa l’infezione

L’infezione inizia con l’arrivo del virus a livello delle mucose dell’apparato respiratorio. Qui i virus incontrano la barriera costituita dal muco, che è secreto dalle cellule caliciformi delle mucose ed è continuamente mosso dalle cilia delle cellule delle mucose respiratorie. Non sappiamo ancora quanti virus SARS-CoV-2 siano eliminati da questa prima importantissima difesa. Tuttavia, è proprio l’efficacia di questa prima barriera e delle prime risposte reattive delle cellule sentinella ad esse associate che determina se l’infezione da SARS-CoV-2 sarà senza sintomi, lieve o avrà gravi conseguenze.

La suscettibilità all’infezione da parte del virus SARS-CoV-2 è modulata da numerosi fattori, tra cui il numero di virus (la carica virale) che hanno infettato la persona, il sesso, l’età (i maschi e gli anziani sono più suscettibili), gli stili di vita e, probabilmente, alcune caratteristiche genetiche della persona che è stata contagiata. Una volta che una persona è stata infettata, il sistema immunitario si attiva a combattere il virus invasore. Paradossalmente, però, una reazione immunitaria eccessiva contribuisce, con la tempesta di citochine e con una iper-attivazione dei macrofagi ad aumentare il danno causato dal virus.

3. Come si comporta il nostro sistema immunitario

Dati ottenuti con SARS-CoV-1 e più recentemente estesi a SAR-CoV-2 indicano che questi virus utilizzano una strategia che inibisce l’immunità innata mediata da interferone. È ragionevole ritenere che questa costituisca una via di fuga fondamentale del virus. A livello dell’immunità adattativa, le cellule T rappresentano i direttori dell’orchestra immunologica e giovano un ruolo fondamentale nella resistenza ai virus, presumibilmente anche SARS-CoV-2. Sono stati identificati gli elementi del virus riconosciuti dalle cellule T della classe CD8. Durante l’infezione virale si assiste a una diminuzione dei linfociti T circolanti e la risposta di queste cellule va incontro a esaurimento e deviazione. Alcuni dati suggeriscono che le cellule T si orientano a fare una risposta di tipo TH17 che è appropriata per l’immunità contro batteri extracellulari ma totalmente inefficace e inappropriata nei confronti dei virus. In circolo gli anticorpi compaiono tardivamente, nella stragrande maggioranza dei soggetti fino a 20 giorni dopo l’esposizione e fino a 15 giorni dopo l’inizio dei sintomi. Sono anche presenti anticorpi di classe IgA potenzialmente importanti per la difesa a livello delle mucose. L‘infezione sintomatica da SARS-CoV-2 dà resistenza alla reinfezione e memoria immunologica. Nel caso di SARS si stima che la memoria immunologica abbia avuto una durata di 2-3 anni. La durata della memoria immunologica nei confronti di SARS-CoV-2 non è nota, un aspetto di fondamentale importanza da diversi punti di vista incluso efficacia e durata dei vaccini.

4. Indizi su come attiva la risposta infiammatoria

Le risposte infiammatorie sono un determinante fondamentale del quadro clinico di COVID-19. I sensori dell’immunità innata che attivano la risposta infiammatoria non sono stati del tutto definite. Si ritiene che recettori che avvertono l’infezione virale e il danno cellulare, quali infammosomi e Toll-like receptors, sono responsabili per la produzione da parte di cellule mieloidi di citochine infiammatorie, quali Interleuchina-1 (IL-1), IL-6, e chemochine. Alla base delle manifestazioni cliniche di COVID-19 vi è una sindrome di attivazione macrofagica e una tempesta citochinica. Queste sono alla base dell’insufficienza d’organo che caratterizza la forma più grave della malattia. L’identificazione del ruolo della risposta infiammatoria nella patogenesi ha aperto la strada allo sviluppo di strategie farmacologiche mirate a bloccare citochine e altri mediatori come il complemento usando farmaci biologici o glucocorticoidi, come discusso nel punto 8.

5. Perché insorgono trombosi

A livello del tessuto polmonare sono presenti microtrombi che si ritiene giochino un ruolo cruciale nella patologia. Ancora, alterazioni della cascata coagulativa sono identificabili a livello sistemico. Queste osservazioni non sorprendono dato il legame stretto fra infiammazione, attivazione dell’endotelio vascolare, e tromboni. L’alterazione funzionale dell’endotelio può essere mediata dall’interazione diretta col virus, dato che SARS-CoV-2 è stato identificato nell’endotelio polmonare. Ancora, citochine infiammatorie come IL-1 attivano un programma protrombotico a livello dell’endotelio vascolare.

6. Strategie diagnostiche: più tamponi e cautela su test sierologici, non esistono “patenti di immunità”

L’identificazione dell’RNA virale utilizzando la tecnologia RT-PCR costituisce il fondamento della diagnostica. La ricerca dell’RNA virale avviene convenzionalmente nei tamponi utilizzando i tamponi nasali e, in presenza di tamponi negativi e evidenza clinica di malattia, a livello di lavaggio broncoalveolare. L’RT-PCR su tamponi costituisce un vero e proprio collo di bottiglia in particolare per tracciare l’infezione in modo sistematico. E’ auspicabile che lo sviluppo di metodologie diagnostiche su saliva possano consentire un uso su vasca scala e a basso prezzo di metodologie per identificare la presenza del virus.

A livello industriale e accademico sono stati messi a punto una grande quantità di test sierologici mirati a identificare la presenza di anticorpi diretti contro SARS-CoV-2. La quantità di test sierologici disponibili non ha precedenti in alcuna malattia infettiva e la qualità di molti di essi dal punto di vista della sensibilità e specificità è assai dubbia e discutibile. L’uso di test sierologici non può non tener conto del tempo tardivo di comparsa degli anticorpi, come misurabile con i saggi attualmente disponibili, e delle caratteristiche della risposta anticorpale stessa, che sulla base dei dati a tutt’oggi disponibili, non comporta una netta distinzione fra risposta IgM e IgG. I saggi sierologici appropriatamente validati sono essenziali per gli studi epidemiologici, per valutare la presenza di anticorpi nel plasma donato a scopo terapeutico come descritto sotto, per valutare la presenza di memoria immunologica e risposta ai vaccini. Inoltre i test sierologici possono costituire un utile diagnostico di accompagnamento nei pazienti con un quadro clinico di COVID-19 ma negativi ai test basati su RT-PCR. Al momento non ci sono dati disponibili che consentano di associare a un certo livello anticorpale, misurato con metodi quantitativi, un livello corrispondente di protezione nei confronti di una successiva esposizione a SARS-CoV-2. Perciò lo stato attuale delle conoscenze non consente di attribuire “patenti o passaporti di immunità”. In soggetti che non hanno avuto la malattia la presenza di anticorpi può dare la falsa percezione di essere immuni al virus e di non trasmettere la malattia e incoraggiare così comportamenti irresponsabili.

7. Aspetti clinici, un’infezione dai molti volti

L’infezione da SARS-CoV-2 si può presentare in una varietà di modi, in un certo senso ancora in via di definizione. Può essere asintomatica o presentare quadri che arrivano all’insufficienza di diversi organi vitali. Il tempo di incubazione è di 5,1 giorni (4,5-5,8). La disfunzione d’organo si può presentare con frequenza variabile. La acute respiratory distress syndrome (ARDS) è stata osservata con una frequenza che ha oscillato dal 3,4% a più del 10%. Nel nostro Paese è stato stimato che quasi il 70% dei pazienti ha sintomi moderati mentre circa il 30% richiede l’ospedalizzazione. I sintomi più comuni sono febbre, tosse, e perdita dell’olfatto e del gusto. Una parte dei pazienti ha sintomi gastrointestinali prima della comparsa dei sintomi respiratori. L’età dei pazienti e la presenza di altre patologie (ad esempio patologie cardiovascolari) sono fattori di rischio cruciali per lo sviluppo di patologia grave e morte.

Nei bambini è stata osservata successivamente all’infezione una nuova sindrome, chiamata Multisystem Inflammatory Syndrome – Children (MIS-C). E’ stata osservata inizialmente dai pediatri in Gran Bretagna che avevano osservato quadri clinici che ricordavano la sindrome di Kawasaki. La patogenesi di MIS-C e la sua rilevanza al di fuori dell’età pediatrica rimangono da definire, così come rimangono da definire a lungo termine le conseguenze di COVID-19 ad esempio a livello polmonare e cardiaco.

8. Cure: non vi è alcuna terapia specifica per COVID-19, ma alcune strade sono più promettenti

La terapia di COVID-19 di dimostrata efficacia si basa sulle strategie di supporto, incluso il supporto respiratorio e la gestione dell’insufficienza d’organo. In questo momento non vi è alcuna terapia specifica per COVID-19. Un primo passo nello sviluppo di una terapia specifica antivirale diretta contro SARS-CoV-2 è costituito da Temdesivir, che ha dato risultati positivi in un grande studio negli Stati Uniti. Clorochina e idrossiclorochina sono state ampiamente usate ma l’evidenza accumulata suggerisce scarsa efficacia e potenziali effetti collaterali importanti. L’evidenza che vi sia grande incidenza di complicanze tromboemboliche ha condotto all’uso di composti eparinici allo scopo di prevenire questi eventi. Sono oggetto di sperimentazione clinica strategie mirate a bloccare la cascata delle citochine (monoclonali anti-IL-1, anti recettore di IL-6, anti-IL-6 ecc.) o la cascata del complemento. Non sono al momento disponibili dati di grandi studi randomizzati che provino l’efficacia di questo approccio. Evidenze recenti indicano un significativo effetto protettivo di Desametasone se usato in una ben definita finestra di progressione della malattia. Il plasma arricchito di anticorpi da pazienti guariti è stato utilizzato in origine in Cina e successivamente in altri Paesi inclusa l’Italia. Si tratta di una pratica che risale all’inizio del ventesimo secolo alle radici dell’immunologia, praticata già nel caso di SARS e MERS. Al momento in due studi clinici randomizzati non si sono osservati benefici significativi, ma plasma e anticorpi monoclonali continuano a costituire una speranza importante per lo sviluppo di terapie efficaci.

9. Vaccini: la ricerca corre, ed è auspicabile che più di un vaccino si riveli efficace

Al momento ci sono circa 150 ipotesi di vaccino a vari stadi di sviluppo su diverse piattaforme tecnologiche. Va notato che ancora non è chiaro se e in che misura gli anticorpi siano protettivi e quanto lo siano le risposte mediate da cellule T. Circa 10 dei 150 vaccini oggetto di studio sono in sperimentazione nell’uomo. Nelle attuali condizioni di emergenza si sta considerando l’ipotesi di vaccinare soggetti volontari e poi esporli al virus in modo intenzionale, un’ipotesi che è oggetto di intenso dibattito per le sue implicazioni etiche. Viene proposto uno sforzo di dare priorità ai vaccini più promettenti nel contesto di studi coordinati sotto la guida dell’Organizzazione Mondiale della Sanità. Una delle sfide sarà quella costituita dalla capacità produttiva, produrre cioè dosi sufficienti a coprire la popolazione mondiale. E’ auspicabile che più di un vaccino si riveli efficace. Un equo accesso al o ai vaccini che verranno sviluppati costituisce una sfida per la comunità internazionale.

10. L’importanza di essere preparati e la ricerca scientifica

E’ evidente dall’effetto devastante della pandemia sulla salute globale che il mondo non era pronto ad affrontare un’emergenza di questo tipo, dal punto di vista strutturale, politico, clinico e di ricerca. Il prezzo pagato dagli operatori sanitari rappresenta una testimonianza del grado di impreparazione con cui la pandemia è stata affrontata, un segnale di allarme per il futuro.
Dal punto di vista terapeutico una grande quantità di farmaci e approcci sono stati utilizzati in condizioni non controllate. Di questi solo il vecchio Desametasone si è dimostrato capace in uno studio clinico controllato di ridurre la mortalità. La lezione dunque da apprendere è che è necessario ritornare ai principi di una sperimentazione rigorosa sviluppati nell’arco di decenni al servizio della salute dei pazienti. Una sfida è costituita da strategie di medicina di precisione, il trattamento giusto al paziente giusto al tempo giusto. Affidarsi a “pallottole magiche” si è dimostrato scarsamente produttivo e la via maestra continua a essere quella di porsi domande di ricerca in modo rigoroso.

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