Non più fantascienza: si studia l'ibernazione degli astronauti per i lunghi viaggi spaziali

Si tratta di studi in fase iniziale ma che potrebbero venire applicati quando cercheremo di mandare un essere umano su Marte

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21 Giugno 2019 - 13.58


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La fantascienza e la realtà diventano sempre più indistinguibili: a quanto sembra la comunità scientifica è al lavoro per studiare una forma di ibernazione che induca il sonno profondo agli astronauti che dovranno, in futuro, affrontare i lunghi viaggi stellari verso nuovi mondi. E il primo di questi viaggi potrebbe essere proprio quello verso Marte, che per essere raggiunto con un rover senza esseri umani a bordo sono stati necessari ben 8 mesi. 
La medicina spaziale sta lavorando anche a un modo per evitare gli effetti del viaggio spaziale sul corpo umano, che a quanto pare accellera l’invecchiamento. “Ai congressi sentiamo spesso gli esperti di medicina spaziale parlare dell”ibernazione’, è una cosa che esiste in natura, negli animali che d’inverno vanno nel torpore profondo e rallentano il metabolismo. Per l’uomo si tratterà di cercare di ottenere una sorta di sonno profondo, perché un equipaggio che dorme non mangia, non produce rifiuti e non si creano conflitti causati dallo stare insieme in ambienti confinati” ha spiegato Debora Angeloni, che insegna biologia molecolare alla Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa, dove è anche responsabile scientifica del primo corso di Biologia spaziale mai organizzato in Italia. 
“Il sonno profondo – ha spiegato – sarebbe una soluzione molto pratica, ma la fisiologia umana è ancora largamente di ‘intralcio’ e gli studi sono ancora in fase iniziale”. Le altre sfide riguardano soprattutto capire come proteggere gli astronauti dall’effetto della microgravità su massa ossea e muscolare, su colonna vertebrale e circolazione. In quest’ambito la Angeloni è l’ideatrice di un esperimento che ha portato 5 milioni di cellule umane, che rivestono i vasi sanguigni, sulla Stazione Spaziale, per studiarne la risposta alle condizioni del volo spaziale. “Abbiamo visto che nello spazio queste cellule – ha spiegato la biologa – cambiano nella forma e di conseguenza sono meno performanti”.

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