Molti figli degli immigrati in stato catatonico: chiusi in un sonno senza risveglio
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Molti figli degli immigrati in stato catatonico: chiusi in un sonno senza risveglio

Questo disturbo dissociativo colpisce decine di figli di coppie di esuli che nei Paesi d'origine sono stati oggetto di violenza o persecuzioni. Una catatonia che può durare anni

Kostan e Milena, nel letto della loro casa, assistiti da un medico
Kostan e Milena, nel letto della loro casa, assistiti da un medico
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28 Febbraio 2018 - 12.48


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Kostan e Milena sono fratelli. Lui ha diciotto anni e lei tredici. Passano le loro giornate uno accanto all’altra, distesi sul letto di una stanza spoglia, in una casa di una località a nord di Stoccolma. Non si muovono, non mostrano di capire quel che accade loro intorno. Oltre ai genitori, che li controllano costantemente, vengono a trovarli dei medici e degli infermieri, che si limitano a prendere i loro dati vitali. I due ragazzi sono nutriti attraverso un sondino gastrico, la sola cosa che li lega al mondo esterno.
Per strano che possa apparire, questo male è presente soprattutto in Svezia e, aspetto ancora più inquietante, colpisce quasi esclusivamente i figli di richiedenti asilo, principalmente quelli dei Paesi dell’ex Unione Sovietica e dell’ex Jugoslavia.
L’hanno chiamata la ”sindrome delle dimissioni”: chi ne è colpito è in un perenne stato semi-comatoso, una specie di catatonia. Ha gli occhi chiusi, i denti serrati, non si muove, i muscoli non hanno tono e deve essere nutrito con un sondino gastrico. Una condizione in cui si cade e da cui si può uscire anche a distanza di anni (in alcuni casi anche tre).
La sindrome cominciò a essere diagnosticata in Svezia alla fine degli anni 1990. Tra il 2003 e il 2005, ne sono stati colpiti più di 400 bambini migranti. Ancora oggi, la sindrome viene diagnosticata in dozzine di bambini ogni anno.
La famiglia di Kostan e Milena (che hanno un fratello) risiedeva a Mosca ed è di origine armena. Nella loro stanza i due ragazzi stanno immobili, sul letto. Una condizione di cui Kostan soffre da due anni e mezzo; Milena da quasi due anni.
Elisabeth Hultcrantz, una dottoressa che passa tutto il suo tempo a prendersi cura volontariamente di una cinquantina di questi giovani pazienti, ammette di non riuscire a ”ottenere il contatto visivo”, si lamenta, sollevando le palpebre una per una. Ed è così fin dall’inizio.
Una serie di semplici esami le consente di vedere, ancora una volta, che non vi è alcun danno neurologico. Questi ragazzi si sono semplicemente ritirati dalla vita.
“Hanno tutti sofferto un trauma, una situazione in cui le loro vite sono state minacciate. E in generale, questo trauma precede il loro arrivo in Svezia afferma la dottoressa Hultcrantz, che si è specializzata in otorinolaringoiatria prima di andare in pensione e dedicarsi interamente a questi bambini.
Secondo alcuni specialisti, è una sindrome di dissociazione. Non c’è una etnia che soffre più delle altri. La dottoressa Hultcrantz spiega che bambini e ragazzi malati sono praticamente di tutte minoranze etniche, con una terribile coincidenza: spesso sono stati perseguitati nel Paese di origine.
Sonia Lupien, neuroscienziata e fondatrice del Center for Studies on Human Stress (CESH) presso l’Istituto universitario di salute mentale di Montreal, è d’accordo, facendo risalire l’origine della sindrome ad ”una paura molto, molto grande, un grande stress che fa sì che tutta la mobilià del corpo, che dovrebbe essere lì per aiutarti a sopravvivere, semplicemente decada”. Quasi che chi ne è colpito sia morto.
Generalmente, i sintomi iniziano con uno stato depressivo e, a poco a poco, c’è una perdita di coscienza seguita da uno stato catatonico.
Il fatto che ad esserne colpiti siano stati in maggioranza giovani figli di richiedenti asilo ha indotto a ritenere che si trattava di una simulazione per rendere più facile ottenere una residenza permanente nel suolo svedese. Altri hanno menzionato una malattia contagiosa, ma tutte queste teorie sono cadute.

“Non reagiscono al dolore, il dolore non è qualcosa che può essere simulato per non reagire, è impossibile”, dice Sonia Lupien.
Il dramma di Kostan e Milena è che, sino al manifestarsi della sindrone, erano ragazzi assolutamente normali, felici e con un ottimo percorsco scolastico.
I genitori dei due giovani, che preferiscono testimoniare anonimamente, nel timore di essere espulsi dalla Svezia, raccontano le fasi della malattia che oggi impone alla loro vita ed a quelle di Milena e Kostan una routine quotidiana dolorosa: il bagno, la ginnastica, la somministrazione del cibo cinque volte al giorno, le uscite su una sedia a rotelle.
La tensione all’interno della famiglia d’origine armena è al culmine, perché le autorità svedesi hanno rifiutato la concessione dell’asilo lo scorso autunno. Hanno fatto appello, ma con poche speranze. Le autorità svedesi sono convinte che lo stato dei due ragazzi non sia di impedimento alla loro espulsione.
La dottoressa Hultcrantz lancia comunque un allarme: viaggiare in aereo è molto pericoloso, i due ragazzi potrebbero morire.
Ma, nonostante questo, le autorità svedesi sono inflessibili. Alcuni giorni fa, una famiglia armena con cinque figli, con la maggiore che soffre della sindrome da quasi un anno, è stata deportata in Polonia.
Ma c’è speranza per la guarigione di questi bambini, perché non appena i genitori hanno ottenuto un permesso di soggiorno, le loro condizioni hanno cominciato a migliorare. Il ritorno alla vita normale può richiedere fino a un anno, ma la sensazione di sicurezza è praticamente l’unica cura.
C’è solo una medicina possibile per questi bambini ed è il ripristino della speranza.
Forse la spiegazione di tutto questo sta nelle parole di una dei giovani pazienti della dottoressa Hultcrantz che è riuscita a guarire: “Ero come in una bolla. Non ho capito cosa si diceva, ma ho sentito voci felici. All’improvviso, la bolla è scoppiata e ho iniziato a sentire quello che che dicevano”.
Ci sono voluti diversi mesi prima che questa ragazza tornasse completamente alla vita normale.

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