La decisione europea, approvata con 25 voti favorevoli e il no di Ungheria e Slovacchia, elimina il meccanismo dei rinnovi semestrali del blocco sui beni sovrani russi congelati dopo l’invasione dell’Ucraina. Un passaggio chiave per consentire l’utilizzo dei profitti di questi asset a sostegno di Kyiv, mentre Mosca ha già minacciato ritorsioni e annunciato cause legali. Una reazione prevedibile da parte del regime di Vladimir Putin, che da anni usa l’arma economica e giudiziaria come strumento di pressione politica.
Salvini però rovescia la prospettiva e attacca Bruxelles: «Personalmente lo ritengo un azzardo, un’imprudenza. E bene ha fatto il governo italiano a mettere i puntini sulle ‘i’. Perché siamo in un libero mercato e non siamo in guerra contro la Russia. O stanotte qualcuno a Bruxelles, a Parigi o a Berlino ha dichiarato guerra alla Russia, oppure mi sembra che qualcuno stia scherzando col fuoco». Un ragionamento che evita accuratamente di ricordare chi quella guerra l’ha iniziata, e che finisce per normalizzare l’aggressione russa all’Ucraina come se fosse un dettaglio secondario.
Il leader leghista insiste sui rischi di ritorsioni, adottando di fatto la stessa narrazione usata dal Cremlino per dissuadere l’Occidente da qualunque irrigidimento: «Confiscare beni, soldi e negozi ha come controindicazione che i russi faranno altrettanto. Ricordo che noi abbiamo 314 aziende italiane in Russia che fanno fatturato e danno lavoro». Una linea che mette al centro gli interessi economici e lascia sullo sfondo la responsabilità di Mosca per un conflitto che continua a produrre morti e distruzione.
Quando gli viene rinfacciata la sua storica vicinanza politica e culturale a Putin, Salvini prova a liquidare tutto con l’ironia: «Dicono che prendo ordini da Putin… Non ho il suo numero di telefono, la sera chiamo i miei figli, non il Cremlino». Ma subito dopo rilancia una critica che coincide con uno dei principali argomenti della propaganda russa: dopo anni di sanzioni e aiuti militari all’Ucraina, la guerra non si è fermata. «Forse bisogna cambiare qualcosa», afferma, senza mai chiamare in causa il regime autoritario che ha invaso un Paese sovrano e continua a bombardarlo.
Sul rinnovo degli aiuti a Kyiv, il vicepremier chiede “discontinuità”, richiamando il tavolo di negoziati attribuito a Donald Trump e insistendo sul tema della corruzione in Ucraina, un altro cavallo di battaglia della narrazione filorussa, pur ribadendo formalmente il sostegno al popolo ucraino. Una posizione che accentua le fratture nella maggioranza, già evidenti tra Salvini, la presidente del Consiglio Giorgia Meloni e il ministro degli Esteri Antonio Tajani, più allineati alla linea euro-atlantica.
A margine, Salvini si concede affondi su temi interni, dall’offerta di Tether per la Juventus, con l’attacco alla famiglia Elkann – «Elkann faccia quello che vuole, quella famiglia di danni in Italia ne ha fatti tanti» – alla proposta di una legge leghista per la partecipazione dei tifosi nelle società calcistiche, fino a minimizzare l’impatto dell’inchiesta Mps-Mediobanca, garantendo “zero timori per la Borsa”.
Ma è sul fronte internazionale che le sue parole pesano di più. In un’Europa che prova a tenere una linea comune contro l’aggressione russa, l’uscita di Salvini suona come l’ennesimo messaggio di indulgenza verso Putin. Un messaggio che, al di là delle battute e delle smentite di rito, continua a trasmettere l’idea che il vero problema non sia il Cremlino e la sua guerra, ma chi prova a contrastarlo.
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