Il patto osceno: la trattativa Stato-Mafia raccontata in un libro

I giornalisti Nicola Biondo e Sigfrido Ranucci ricostruiscono la drammatica vicenda di Luigi Ilardo, il primo infiltrato in Cosa nostra che svelò l'esistenza del famigerato "papello"

Il patto osceno: la trattativa Stato-Mafia raccontata in un libro
La strage di Capaci
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Giuseppe Costigliola Modifica articolo

15 Dicembre 2022 - 20.55


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Ad essere sinceri e consequenziali, c’è da vergognarsi di dichiararsi italiani. C’è da vergognarsi di vivere in un Paese dove il malaffare e la cialtroneria regnano sovrani, dove le stragi che hanno impregnato di sangue innocente le sue mirabili terre rimangono impunite, dove il canceroso intreccio di politica, finanza, massoneria, pezzi delle istituzioni e criminalità organizzata ne succhiano avidamente il midollo facendolo avvizzire. C’è da vergognarsi di essere cittadini di un Paese dove lo Stato stringe osceni accordi con l’Antistato, nell’indifferenza generale.

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È questo lo sconfortante sentimento che si prova nel leggere il libro Il patto. La trattativa fra Stato e Mafia nel racconto inedito di un infiltrato, scritto da Nicola Biondo e Sigfrido Ranucci e riedito da Chiarelettere (pp. 338, 14€) dopo la recente, per certi versi rivoluzionaria sentenza della Corte d’appello di Palermo dello scorso agosto, che ha accertato l’esistenza di un trattativa tra lo Stato e Cosa nostra, smentendo definitivamente gli spudorati e improvvidi politici e le schiere di giornalisti asserviti che per anni hanno svillaneggiato chi ne denunciava la realtà. Dalle motivazioni dei giudici emerge che gli allora vertici dei carabinieri del Ros (Antonio Subranni, Mario Mori e Giuseppe De Donno), pur assolti dal reato di violenza o minaccia a corpo politico dello Stato, avrebbero protetto il capo di Cosa nostra Bernardo Provenzano, favorendone la latitanza “in modo soft”: bizantine sottigliezze di togati nostrani.

Il volume, redatto dai due noti giornalisti con il rigore del reportage e dunque provvisto di documenti e puntuali riferimenti, racconta la storia della clamorosa infiltrazione di Luigi Ilardo, ex capo di un clan della provincia di Caltanissetta e cugino del boss Giuseppe Madonia, che accettò di collaborare con la giustizia per il tramite dell’allora maggiore dei carabinieri Michele Riccio, fornendo inestimabili informazioni. La fonte “Oriente”, come era chiamata nell’operazione dei Ros, fu il primo “uomo d’onore” della storia a infiltrarsi in Cosa nostra, colui che svelò il covo dove si nascondeva l’inafferrabile Bernardo Provenzano, la cui cattura all’epoca non avvenne per misteriosi motivi. Soprattutto, fu il primo a rivelare l’esistenza di una trattativa fra lo Stato e la mafia, nel momento in cui si stava svolgendo. “Sembra di leggere la sceneggiatura di un film, ma e tutto vero” scrive Ranucci nella prefazione alla nuova edizione, e purtroppo è così.

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In una tumultuosa cavalcata veniamo trasportati ai primi anni Novanta del secolo scorso, al drammatico scorcio delle stragi dove trovarono la morte Falcone e Borsellino, degli attentati mafiosi di Roma, Firenze e Milano, al periodo di Tangentopoli. Si ricostruisce il contesto storico-politico di quella fosca epoca, la guerra intestina tra apparati dello Stato e i laceranti scontri istituzionali, la spaccatura insita in Cosa nostra tra chi appoggiava la strategia stragista e l’ala “moderata” dell’organizzazione, le fasi della trattativa, avviata nell’estate del 1992 dopo gli omicidi di Salvo Lima e di Giovanni Falcone, proseguita dopo il gennaio del 1993, quando Riina venne arrestato, probabilmente “venduto” da Provenzano.

Protagonista di tali vicende è dunque Ilardo, ma non solo. Perché questo libro, al di là delle sentenze, “racconta una verità indicibile” scrive ancora Ranucci nella prefazione. Ilardo svelò infatti che dietro le stragi e gli omicidi eccellenti non c’era solo la mano della mafia, ma anche quella dei servizi segreti, della massoneria deviata: la solita, putrida storia d’Italia che aveva già insanguinato il ventennio precedente, e che rende chi accusava lo Stato di complicità nelle stragi di Capaci e di Via D’Amelio “portatore di un seme scandaloso di verità”.

Ma qui si narra anche dell’avvincente sodalizio e sinanco affetto tra due galantuomini impegnati in una lotta micidiale contro un nemico mortale, la disperata ricerca di redenzione da parte di chi, dopo essersi confrontato col male che portava in sé e avendo infine compreso “i veri valori della vita”, prova disperatamente, lucidamente, caparbiamente a emendarsi dalle colpe ponendo la vita sua e dei familiari nelle mani di un ufficiale dei Carabinieri, che sarà a sua volta tradito. È anche la storia dei timori, delle frustrazioni, delle difficoltà, dei terribili dubbi e dimidianti interrogativi di chi si sente abbandonato dallo Stato, dall’Arma, dalla Magistratura, dai Servizi: così l’ufficiale del Ros Michele Riccio, così, prima di lui, i giudici Falcone e Borsellino, e prima ancora il generale Dalla Chiesa e i tanti servitori di uno Stato che nei fatti ne ha decretato la morte, morale o fisica.

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E tra omicidi eccellenti, contatti tra vertici mafiosi ed alti esponenti della politica e delle forze dell’ordine, depistaggi, prove scomparse, inchieste archiviate, magistrati e alti funzionari delle istituzioni corrotti, infiltrati della mafia nelle caserme, nei tribunali, nei ministeri, campagne di diffamazione e denigrazione verso irreprensibili uomini di legge, si dipana un racconto tanto avvincente quanto terribile. Sì, sembra la sceneggiatura hollywoodiana di un film di mala, l’intreccio di una trama dostoevskjiana e di una spy story, ma è pura realtà, incisa sugli otto nastri in cui l’allora maggiore, poi tenente colonnello, Michele Riccio raccolse dalla viva voce di Ilardo, il cui racconto scoperchiava il vaso di Pandora di una realtà innominabile, in cui svettava il famigerato papello con le richieste della mafia allo Stato.

Naturalmente, la sorte di Luigi Ilardo non poteva non essere segnata. Il 10 maggio 1996, intorno alle 21.30, davanti al garage della sua abitazione di Catania venne freddato da otto colpi esplosi da due killer sopraggiunti in moto, quattro giorni prima di entrare nel programma di protezione garantito ai collaboratori di giustizia. Morì così, “tradito da una talpa istituzionale”, prima di poter mettere a verbale le rivelazioni rese al tenente colonnello Riccio, fatti puntualmente confermati da indagini successive. In fondo, notano gli autori, per le due “istituzioni” che ha servito Ilardo è divenuto un fantasma, poiché rappresenta una sconfitta per entrambe: per la mafia che non è riuscita a individuarlo in oltre due anni; per lo Stato che non ha saputo o voluto proteggerlo, “che anzi l’ha tradito”. Farebbe comodo al sistema che decise di eliminarlo di cancellarne anche la memoria, come non fosse mai esistito.

Questo libro è dunque anche un recupero di quella memoria, del significato più profondo di quel tentato riscatto: memoria non soltanto d’un individuo ma collettiva, della guasta storia d’un guasto Paese. Perché Ilardo “descrive un brandello di storia che alimenta i nostri peggiori incubi e il desiderio di sfuggirli. Parla di un Paese che ha il record di morti per stragi, di magistrati assassinati, di giornalisti uccisi, di aziende strozzate dal pizzo, di politici collusi e di investigatori condannati per intelligenza con il nemico, di milioni di persone che vivono in territori dominati da organizzazioni mafiose”: questa la realtà che troppo spesso si tenta di rimuovere.

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Nel ricostruire delittuose vicende che s’irraggiano in tutta la loro venefica potenza sino all’oggi, Biondo e Ranucci si sono trovati davanti a “un inferno” e lo hanno “messo in scena”. È un atto certo meritorio; inutile, però, se questo disvelamento rimane lettera morta in un corpo civile morto. Conoscere, saper discernere tra criminali pifferai e individui integerrimi e agire di conseguenza è l’unica arma che una società desta e sana può opporre al Male eretto a sistema. La storia, altrimenti, è fatalmente destinata a ripetersi, all’infinito.

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