Di Maio-Conte: il servilismo Nato e l'accusa di "putinismo" verso l'ex premier

Dare del “putiniano” a Conte sembra essere non solo fuori storia ma qualcosa di peggio: un volersi accreditare presso quei circoli così influenti, alle porte dei quali, in passato aveva bussato lo stesso “Giuseppi”.

Di Maio-Conte: il servilismo Nato e l'accusa di "putinismo" verso l'ex premier
Giuseppe Conte e Luigi Di Maio
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9 Luglio 2022 - 14.08


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Una premessa è dovuta. Più che premessa, una confessione. Vi sono dei periodi in cui la miserabilità della politica italiana emerge in tutta la sua miserabilità. Sono i periodi in cui la storia ti mette di fronte a eventi particolarmente drammatici: la pandemia, la guerra, cambiamenti climatici dei quali avvertiamo ricadute pesanti nella nostra quotidianità (la siccità, ad esempio). Sono questi i momenti in cui si misura la statura di una classe dirigente. In politica come in economia e, perché no, nella comunicazione. Ma stavolta restiamo alla misurazione della politica e dei politici. Qui siamo proprio al “nanismo” spinto.

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Mentre a Est si continua a combattere, mentre nel Mediterraneo si continua ad affogare, mentre i rapporti delle più importanti Agenzie Onu, ripresi con meticolosa puntualità da Globalist, danno conto di un mondo dove oltre 828 milioni di persone soffrono la fame e Oxfam ed Emergency denunciano le ricadute devastanti, in termini di vite umane cancellate, dell’apartheid vaccinale, mentre avviene tutto questo, in Italia va in scena il titanico scontro tra Luigi Di Maio e Giuseppe Conte.

Altra confessione: non invidiamo neanche un po’ i giornalisti/e che devono ogni giorno raccontare l’evolversi di questa battaglia dei posti. Perché alla fine di questo si tratta. I contenuti, le visioni, sono un maldestro tentativo di nobilitare uno scontro che con visioni e contenuti non ha nulla a che fare. Ma proprio nulla. Semmai, sarebbe più interessante, e impegnativo, ragionare sull’irresistibile declino di un Movimento, i 5Stelle, che solo quattro anni fa, nelle elezioni legislative del 2018, aveva fatto il pieno di voti sull’onda dei vaffa…di Beppe Grillo e sulla indubbia capacità di intercettare il malessere e la rabbia che covavano dentro la società nei confronti dei politici politicanti.

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Quattro anni dopo, l’onda lunga si è prosciugata, i pentastellati si sono scissi e il Movimento che ambiva a rivoluzionare la politica e ad aprire il parlamento come una scatola di sardine, alle comode poltrone parlamentari si è incardinato e della politica politicante ha ereditato i peggior vizi: colpi bassi, attacchi personali, dossieraggi, pizzini minacciosi. E di questa politica miserrima fa parte anche la transumanza di parlamentari da ciò che resta di 5Stelle al nuovo gruppo creato da Di Maio, con una botta di creatività nominalistica: Insieme per l’Italia. Una transumanza andata-ritorno e viceversa: visto che le cronache politiche e i retroscenismi che immancabilmente l’accompagnano, sono piene di nomi e numeri di deputati e senatori pentastellati o ex, che fanno sapere di essere intenzionati a passare da un gruppo all’altro sulla base di un unico punto. Esistenziale, più che politico. Il mantenimento in vita del governo Draghi. Per fare che cosa, questo non è chiaro. Mentre è chiarissimo l’interesse “esistenziale”: portare a compimento la legislatura, perché questo significa garantirsi il lauto stipendio fino all’ultimo giorno. E per molti dei diretti interessati, quel giorno sarà davvero l’ultimo, da parlamentari s’intende. Poi la lotteria della fortuna finirà. E non si potrà più andare all’incasso.

Ma tutto il singolar tenzone tra Luigi e Giuseppe ci lascerebbe del tutto indifferenti se il primo dei due belligeranti, Di Maio, non continuasse a tirar fuori un argomento su cui invece vale la pena ragionare.  In ogni affondo di Gigino contro “Giuseppi” (così ribattezzato da Donald Trump durante una tragicomica conferenza stampa congiunta alla Casa Bianca), c’è, come immancabile mantra, un velenoso riferimento a Putin, al quale il Conte ultima versione, presterebbe, consapevole o no, i suoi servigi. E questa è una cosa seria.

Molto seria. Lo è per quello che lascia intendere, più ancora di quello che esplicita. Conte avverte Draghi: “Subito un cambio o ce ne andiamo”? Ecco subito un Di Maio tuonante: “Così aiuta Putin”. Non è la prima volta che il ministro degli Esteri utilizza quest’affermazione per andare addosso al suo ex leader, nonché Primo ministro nei due governi, il Conte I e il Conte II,  nei quali Di Maio ha ricoperti incarichi di primissimo piano (nel Conte I era uno dei vice presidenti, assieme al rimpianto Matteo Salvini). 

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Ora, chi scrive ha di Conte una idea molto semplice, che può racchiudersi in un aggettivo: inadeguato”. Inadeguato a guidare un Governo. Inadeguato a essere il leader di una forza politica che vuole avere un futuro. Ma da qui a inserirlo nella lista dei “putiniani”, beh, questo è davvero troppo. A meno che, il titolare della Farnesina non abbia prove di questo asservimento. Se così fosse farebbe bene a farsi ascoltare dal Copasir. Ma se ciò non avviene, allora qui siamo all’uso più bieco e miserrimo di una cosa sacra, come dovrebbe essere per un Paese che rispetti se stesso, la politica estera per biechi fini do bottega interna. Un “Giuseppi” Conte col colbacco può esistere solo nella narrazione del suo ex collega di partito e di Governo, ma nei fatti non ne esiste traccia. Semmai, è vero il contrario. E’ vero, perché documentato dalle cronache, che al momento della sua investitura a premier, Conte ha cercato in tutti i modi di essere bene accetto a Washington, a Bruxelles, nelle più influenti capitali europee e, cosa non secondaria, nei circoli atlantici che contano. 

Un passo indietro nel tempo. Ne scriveva, tra gli altri,  Il Foglio: Alcuni passaggi: “Ieri Repubblica ha fornito ulteriori dettagli   sugli incontri avvenuti ad agosto e a settembre del 2019 tra il segretario alla Giustizia americano William Barr, inviato da Trump per una controinchiesta sul Russiagate,, e l’allora capo dei servizi segreti italiani (Dis) e braccio destro di Giuseppe Conte, Gennaro Vecchione. Repubblica ricostruisce i movimenti di Barr, inclusa una cena programmata con Vecchione, e solleva alcune incongruenze con la versione di Conte. I nuovi particolari non modificano molto un quadro di asservimento alle richieste indecenti di Trump,che neppure paesi in stato di necessità come l’Ucraina hanno accettato. In questo senso sono significativi i casi di Conte e Zelensky.

Gli incontri tra Barr e Vecchione nascono dalla convinzione dell’amministrazione Trump che il Russiagate, ovvero l’inchiesta sulle interferenze russe nelle elezioni presidenziali del 2016 e sui contatti tra ufficiali russi e il team di Trump, sia stato un complotto nei suoi confronti orchestrato da Hillary Clinton e dall’Fbi, con la collaborazione dei servizi italiani indirizzati in qualche modo dall’allora premier Matteo Renzi. Per questo motivo l’amministrazione Trump aveva nominato un procuratore speciale, John Durham, con il mandato di indagare sull’origine dell’inchiesta sul Russiagate fatta dal procuratore speciale Robert Mueller. Che Trump credesse davvero o meno a questa teoria complottista è irrilevante, la cosa sicura è che questa inchiesta gli serviva come arma politica per le imminenti elezioni presidenziali dove si giocava la riconferma. E pertanto era per lui importante ottenere una collaborazione dall’Italia per mostrare che l’inchiesta avesse un qualche fondamento.

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E’ questo l’aiuto che Trump ha chiesto all’amico Giuseppi, che immediatamente ha messo. adisposizione dell’amico Donald i servizi segreti italiani. Ma non semplicemente chiedendo eventuali informazioni, bensì organizzando incontri operativi tra Vecchione e il ministro della Giustizia americano, quasi che il Dis fosse diventato una specie di polizia giudiziaria al servizio del governo americano. Il problema non è solo che in questo modo Conte abbia aiutato Trump a ribaltare un’inchiesta fatta dalle autorità americane, inserendosi in una questione politico-istituzionale interna con ricadute sulle elezioni americane. Ma che, per assecondare la teoria di Trump secondo cui il complotto avrebbe coinvolto i servizi italiani, il presidente del Consiglio ha di fatto messo l’intelligence italiana nella condizione di indagare su sé stessa per conto delle autorità americaneal fine di verificare se avesse complottato contro il presidente degli Stati Uniti insieme all’Fbi. E’ a questo delirio trumpiano che Conte non ha saputo dire di no piegando le istituzioni italiane…”. Fin qui la nota de Il Foglio

 Ora, è vero che Trump era amico di Putin, ma arrivare alla conclusione che “Giuseppi” ha fatto quello che ha ben descritto Il Foglio, ma anche La Stampa, il Corriere della Sera, la pluricitata Repubblica e Globalist –  per ingraziarsi lo zar del Cremlino, beh, questo più che cervellotico appare una panzana bella e buona. 

Stiamo parlando dell’”avvocato del popolo” che  non solo parlava di “impegni di spesa per il contributo alla Nato”, ma diceva anche che, in fin dei conti, la richiesta di Trump di portare il contributo per ogni singolo Paese dal 2 al 4% era più che legittima e fondata sulla necessità di un riequilibrio economico a carico dei Paesi europei.

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 Era infatti il 12 luglio 2018 quando l’allora presidente del Consiglio, nel corso della consueta conferenza stampa di fine vertice (Nato, Bruxelles 11-12 luglio 2018), a commento della richiesta avanzata da Trump  di portare il contributo dei paesi membri dal 2 al 4% rispondeva che “l’Italia ha ereditato degli impegni di spesa per quanto riguarda il contributo alla Nato che noi non abbiamo alterato“, aggiungendo che “oggi non abbiamo deliberato di offrire ulteriori contributi rispetto a quello che è già predeterminato da tempo”, rispettando di fatto il “Defence Investment Pledge (impegno per gli investimenti nella difesa) varato nel 2014”.

E uno così può essere definito “putiniano”?  Più semplicemente, Conte si era messo al servizio dell’uomo che in quel momento rappresentava la potenza a cui l’Italia, e chi la governa, doveva, e continua a farlo, a dar conto di ciò che fa, soprattutto in politica estera. E se per essere accreditati alla Casa Bianca, si doveva scendere ai livelli più bassi d’asservimento, Conte l’ha fatto. Ma qui entra in ballo la questione che l’atteggiamento assunto dall’Italia nella guerra in Ucraina ha messo in solare evidenza: la nostra totale subalternità ai desiderata degli Usa. Sia chiaro, per i maestri con la penna rossa e blu pronti a inserirti nella lista dei “putiniani”. Il punto non è aver fornito armi alla resistenza ucraina, cosa che è stata fatta anche da altri Paesi europei, leggi Francia e Germania, in particolare. Il punto è che l’Italia, come appare evidente anche nell’ultimo vertice Nato di Madrid, ha rinunciato a esercitare una anche minima soggettività politica di fronte ai comandi del commander in chief dell’Alleanza: Joe Biden. 

E qui una prima considerazione finale: essere dalla parte dell’aggredito e contro l’invasore, non porta meccanicamente con sé accondiscendere ad ogni volere americano. Si può essere alleati ma non vassalli. 

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Un discorso che investe direttamente e pesantemente il nostro ministro degli Esteri. La sua conversione all’iper atlantismo sa del miracolistico. La conversione di Luigi sulla via di Washington. 

18 giugno scorso. Lancio Ansa: “”Ho letto che in queste ore c’è una parte del Movimento che ha proposto una bozza di risoluzione che ci disallinea dall’alleanza della Nato e dell’Ue, la Nato è un’alleanza difensiva, se ci disallineamo dalla Nato mettiamo a repentaglio la sicurezza dell’Italia”. Così il ministro degli Esteri Luigi Di Maio ad un evento a Gaeta.

Passano pochi giorni, e da Madrid, Di Maio ritorna sul tema. Ancora dai lanci d’agenzia: “Quella che esce dal vertice di Madrid è una Nato in cui l’Italia si riconosce. Lo ha dichiarato il ministro degli Esteri Luigi di Maio, intervenuto oggi al colloquio organizzato dal Centro studi americani “Inside the New Strategic Concept 2022: la Nato verso il futuro”. Nel corso della sua storia la Nato ha sempre dimostrato “una straordinaria capacità di adattamento alle mutate circostanze” e questo grazie, da un lato, “all’essenziale semplicità” del Patto Atlantico e, dall’altro, al suo “forte radicamento valoriale”, ha detto Di Maio, per il quale il nuovo Concetto strategico approvato al vertice di Madrid è “pienamente all’altezza sia di questa positiva eredità, che delle complesse sfide che ci attendono”. Il ministro attribuisce la positiva valutazione del nuovo Concetto strategico dell’Alleanza a quattro considerazioni: il modello riconosce con forza un “approccio a 360 gradi”, riconosce i tre compiti fondamentali dell’Alleanza – deterrenza, difesa e prevenzione –, dedica “la giusta attenzione alle sfide del Sud” e ribadisce il “carattere unico ed essenziale” del partenariato fra Nato e Unione europea. “Non possiamo tutelare la nostra sicurezza limitandoci a un contenimento difensivo statico ai nostri confini. Occorre una visione matura e sofisticata dei fenomeni che interessano la sicurezza del nostro vicinato, e occorrono gli strumenti per rafforzare la resilienza dei nostri partner, o per intervenire, laddove possibile e necessario, in aree di crisi”, ha detto Di Maio, per il quale “la nuova situazione strategica determinata sul continente europeo dall’aggressione di Putin all’Ucraina ha indotto le democrazie occidentali a serrare le fila in reazione a un pericolo esistenziale”. Anche l’invito esteso dal vertice di Madrid a Finlandia e Svezia, ha aggiunto il ministro, “va nel senso di riavvicinare ancora di più le due organizzazioni”, Ue e Nato. “Credo che i fatti confortino la scelta di lavorare in questa direzione, non ricercando forzate accelerazioni, bensì con determinazione, concretezza e pazienza strategica”, ha concluso, osservando che l’adesione di Svezia e Finlandia e il rafforzamento del legame tra Nato e Ue “dimostrano il fallimento strategico dell’aggressione ingiustificabile della Russia ai danni di un Paese vicino. Putin voleva indebolirci e invece ci ha rafforzati”.

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Di Maio si lancia in questo sperticato elogio, storico, politico, valoriale, della Nato alla fine di un vertice nel quale pur di avere il via libera da parte della Turchia all’ingresso di Svezia e Finlandia nell’Alleanza atlantica, i leader della suddetta avevano venduto i curdi al carnefice di Ankara: Recep Tayyp Erdogan. 

“Quello che chiediamo noi è rivedere l’impegno dell’Italia nella Nato e della stessa Nato e ci fa piacere che anche Trump venga su questa linea”. Così in un video del 2017, lo stesso Di Maio. Per Di Maio, all’epoca al primo mandato come deputato pentastellato, bisognava “andare oltre la Nato, non uscire dalla Nato” perché “in questo momento siamo dei pazzi a portare le nostre truppe al confine con la Russia”. “La Nato in questo momento sta portando truppe al confine con la Russia quando noi crediamo che in un’ottica di lotta al terrorismo e di pace tra potenze militari, non sia assolutamente indicato, ma da folli”, diceva allora l’attuale ministro degli Esteri.

Oggi ha cambiato idea. Ci può stare. Ma dare del “putiniano” a Conte sembra essere non solo fuori storia ma qualcosa di peggio: un volersi accreditare presso quei circoli così influenti, alle porte dei quali, in passato aveva bussato lo stesso “Giuseppi”.

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Il servilismo. Questa è la cifra vera di una storia italiana. Una storia di cui non farsi vanto. 

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