Sabino Cassese: "Una Commissione d’inchiesta sulla giustizia non è un processo d’accusa”

Il giudice emerito della Corte Costituzionale: "Non sempre le commissioni parlamentari hanno avuto un buon esito ma vi sono state anche commissioni che hanno compiuto analisi conoscitive molto utili".

Sabino Cassese
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10 Maggio 2021 - 16.15


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di Antonello Sette

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Professor Cassese, per una settimana e più si è parlato del rapper Fedez che è salito sul palco del Concerto del Primo maggio, ha attaccato i leghisti sull’omofobia e ha accusato Raitre di aver provato a censurarlo. Nel frattempo infuria la polemica se sia meglio mantenere il coprifuoco alle 22 o spostarlo alle 23. Nessuno parla invece di chi è morto anche in questi giorni sul lavoro e dei milioni di famiglie ridotte in povertà. Le sembrano grancasse e silenzi accettabili?

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In filosofia si distingue tra epifenomeni e fenomeni, i primi sussidiari, i secondi principali. Anche in politica bisogna saper distinguere tra epifenomeni e fenomeni – osserva il giudice emerito della Corte Costituzionale rispondendo all’Agenzia SprayNews -. Il problema è: quale funzione hanno gli epifenomeni? Da un lato, essi sono il segno di una debolezza intellettuale della politica, che si dedica alle cose secondarie, invece che a quelle primarie. Dall’altro, essi sono il segno di un’astuzia della politica che, rappresentando sul palcoscenico i fenomeni sussidiari, consente a quelli che stanno dietro le quinte di lavorare al riparo dell’opinione pubblica.

La giustizia è entrata in una deriva pericolosa. Come se non bastassero le rivelazioni dell’ex Presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati Luca Palamara sulle carriere distorte e sull’uso politico dei processi, ora si assiste a viaggi irrituali di verbali secretati e a una guerra neppure troppo strisciante fra colleghi magistrati. Siamo arrivati un punto di crisi pericoloso?

I segni di crisi non sono tanto quelli da lei indicati, ma quelli che ad essi sottostanno. Ad esempio, nelle ultime vicende emergono chiaramente i seguenti sintomi. Innanzitutto, il ruolo predominante svolto dalle procure. Calcoli che vi lavora circa 1/5 dei magistrati italiani. Così il lavoro degli altri 4/5 viene quasi a scomparire, ad essere oscurato. In secondo luogo, emergono fratture interne alle strutture delle procure, delle faglie su cui si innestano tendenze pericolose. In terzo luogo, emergono legami personali che dovrebbero essere superati dai ruoli istituzionali delle singole persone. In quarto luogo, emerge l’inanità del Consiglio superiore della magistratura, a cui riesce difficile mettere ordine nei conflitti interni all’ordine giudiziario. Infine, si conferma il fenomeno molto preoccupante del legame tra procure e mezzi di formazione dell’opinione pubblica, i giornali. Al di là di ciò che può contenere la verbalizzazione oggetto del contendere, le vicende che si sono svolte intorno ad essa sono il segno di questi fenomeni preoccupanti.

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Ha auspicato l’istituzione di una Commissione parlamentare d’inchiesta sul funzionamento della giustizia. Lei è un esponente altissimo delle istituzioni, una persona al di sopra, anzi per meglio dire al di là delle parti. Mi sembra che si fatichi a raccogliere il suo appello. Forse perché anche la giustizia è diventata oggetto di una ripicca di parte, anziché restarne fuori come un anelito universale?

La proposta di istituzione di una commissione parlamentare di inchiesta sui rapporti tra politica e giustizia è stata già presentata in Parlamento nel giugno del 2020. L’appoggiano molte forze politiche che potrebbero facilmente fare maggioranza e condurre all’istituzione della commissione. Alla commissione sono rivolte due critiche. La prima è che metterebbe sotto accusa la magistratura. Ma inchiesta non vuol dire accusa. La seconda è che non sempre le commissioni parlamentari hanno avuto un buon esito. Questo è in parte vero, ma non può essere generalizzato, perché vi sono state anche commissioni che hanno compiuto analisi conoscitive molto importanti ed utili.

Professore, quale è la cosa che manca all’Italia e agli italiani? Siamo ancora quelli descritti da Carlo Rosselli quasi cent’anni fa: “Un popolo che oscilla fra il machiavellismo di bassa lega e l’anarchismo della convenienza”?

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Mancano molte cose. In primo luogo, abbiamo una storia breve, che comincia soltanto nel 1861, mentre molti altri Stati moderni hanno alle loro spalle da tre a cinque secoli di vita. In secondo luogo, manca una vera unità, perché il divario nord – sud non è mai stato colmato. In terzo luogo, manca un grado di scolarizzazione paragonabile a quello degli altri Paesi europei. Infine, manca un sistema di razionalizzazione o stabilizzazione del governo, che era stato auspicato dall’Assemblea costituente, che non riuscì a realizzarlo. A questi difetti o a queste lacune si aggiungono tutte le altre così bene illustrate in un famoso scritto di Giacomo Leopardi sul carattere degli italiani.

Lei si arrabbia qualche volta? Se sì, che cosa l’ha più fatta arrabbiare durante il periodo più buio della storia repubblicana?

Mi arrabbio soltanto con chi mi ruba il tempo, perché sono un seguace di Seneca per i quale il tempo è il bene più prezioso, l’unico del quale si può essere avari. Le vicende politiche storiche, invece, vanno analizzate con le capacità dell’entomologo, “sine ira et studio”, cioè senza animosità o pregiudizi.

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