Il silenzio e l’ascolto dello stile Draghi cambieranno il Paese?

Spero che lo stile del nuovo premier riesca a cambiare il Paese e a renderlo meno conflittuale con questa inedita e variegata coalizione

Mario Draghi
Mario Draghi
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Michele Cecere Modifica articolo

14 Febbraio 2021 - 17.20


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L’avvento di Mario Draghi al governo è stato salutato con entusiasmo da molti politici e osservatori politici, ma pochi si sono soffermati a riflettere su alcuni aspetti formali del cosiddetto “stile Draghi”. 

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Negli ultimi trent’anni la politica è diventata sempre più un prodotto di  marketing legato all’immagine più che ai contenuti. Nel 1992 ero in Brasile durante le lezioni federali e mi meravigliava vedere sui manifesti le facce dei candidati più che i simboli dei loro partiti. Soltanto due anni dopo in Italia, l’ingresso in politica di Silvio Berlusconi trasformava completamente le forme della comunicazione e avviava la mutazione da “cittadini  elettori” a “pubblico di elettori”. In quei primi anni novanta assistevamo alla fioritura di  trasmissioni televisive, l’indimenticabile “Samarcanda” di Santoro fu la prima, dove la parola d’ordine era “indignazione” contro le mafie e la mala politica, Tangentopoli e le stragi di mafia erano lì. La sigla di Samarcanda era la “Povera patria” cantata da Franco Battiato: “Povera patria schiacciata dagli abusi del potere di gente infame, che non sa cos’è il pudore, si credono potenti e gli va bene quello che fanno e tutto gli appartiene. Tra i governanti, quanti perfetti e inutili buffoni…”. 

Non c’erano i social, né i cellulari in quegli anni, tv e giornali pilotavano il consenso, in televisione nascevano i Talk-show, parola che già in sé determinava il passaggio ad una politica che si faceva spettacolo puro, col pubblico in diretta a trasformare gradualmente negli anni gli “studi” televisivi in “stadi” con le varie tifoserie, spesso autentiche claques organizzate dai politici di turno. Uno dei meriti della pandemia e delle sue rigide regole è stato di umanizzare  quei dibattiti riportandoli in studi privi di pubblico, dove finalmente chi parla non deve inseguire l’applauso. 

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Era stata proprio Tangentopoli a offrirci le prime indimenticabili scene della teatralizzazione della politica, dalle monetine al Craxi che esce dall’hotel Raphael al Di Pietro che toglie platealmente la tunica al termine dell’udienza per segnare la sua uscita dalla magistratura. La spettacolarizzazione arriva fino ai nostri giorni, con l’onnipresente Renzi a reti unificate e la sua inopinata crisi, degna di grandi autori del teatro dell’assurdo, quali Beckett e Ionesco. 

Proprio Renzi oggi si vanta di aver auspicato, lui per primo, la nomina di Draghi, tanto da definirlo il suo ennesimo “capolavoro politico”: è almeno un decennio che il “casinaro” di Rignano inanella una serie di perle che puntualmente rinnega (vedere ad esempio il Conte bis, del quale pure si vantò di aver dato origine). Ma il paradosso è che proprio Draghi rappresenta l’altra faccia della comunicazione, del tutto agli antipodi rispetto ai tweet e ai post renziani. Draghi è lontano dalla politica urlata degli slogan, dai comunicati diffusi via rete e dalle interviste televisive.

Non posta foto su Instagram, né lascia trapelare i suoi pensieri attraverso un portavoce, tanto che se andate a rileggere le mille ipotesi dei giornalisti sulle nomine dei ministri, troverete che ben poche si sono rivelate esatte. Sembra che Draghi appuntasse da solo su carta i suoi pensieri durante le consultazioni con politici e parti sociali, ma soprattutto Mario Draghi (udite udite!) ascoltava, più che parlare. Questa dell’ascolto e del silenzio mi sembra la vera rivoluzione portata dal nuovo Presidente del Consiglio, una lezione che dovrebbe essere un monito verso l’intera classe politica. Perché si cambi davvero la rotta, uscendo da trent’anni di conflitti fra destra e sinistra, capaci di generare solo gossip politico e nessun progetto per il bene comune Italia.

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La cerimonia del campanello fra l’uscente Conte e il subentrante Draghi ci ha fornito un altro momento inedito, un passaggio fra due persone estranee alla politica dei partiti. Mario Draghi viene da Monteverde un piccolo comune dell’Irpinia, mentre Giuseppe Conte è originario di Volturara Appula, nel Subappennino Dauno. A volerla fare a piedi la strada che unisce questi due piccoli borghi è minore di cento chilometri. Sono terre di quel Sud che continua a spopolarsi dagli anni cinquanta e Conte e Draghi sono le punte di questa emigrazione senza fine. Sono terre del silenzio, di quel silenzio che vorrei proporre a quei politici poco avvezzi ad ascoltare i bisogni delle persone. Quasi un decennio fa, l’ultimo tecnico, Mario Monti, fallì parzialmente nella sua ricerca di sobrietà. Oggi spero che lo stile Draghi riesca a cambiare il Paese e a renderlo meno conflittuale con questa inedita e variegata coalizione.

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