Lo strano caso di Nembro e Alzano: due focolai dei virus che non sono stati trasformati in zone rosse

A quei sei giorni fatali è dedicata un’inchiesta del Corriere della Sera che scava nelle responsabilità della politica regionale e nazionale.

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6 Aprile 2020 - 08.35


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Perché non è mai stata istituita una zona rossa nella provincia di Bergamo? Perché attorno ai Comuni di Nembro e Alzano, focolai del virus già a metà febbraio, non è stato costruito quel cordone di sicurezza che invece ha subito blindato dieci paesi del Lodigiano? Nel caso della provincia di Bergamo, per sei giorni – dal 3 al 9 marzo – nessuno si è assunto l’onere di farlo. A quei sei giorni fatali è dedicata un’inchiesta del Corriere della Sera che scava nelle responsabilità della politica regionale e nazionale.

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La corrispondenza privata governo-Regione, e una nota interna a Palazzo Chigi, consentono di ricostruire quanto è avvenuto. E aiutano a capire come mai per istituire la zona rossa intorno a Codogno ci siano volute meno di 24 ore, con l’ordinanza firmata dal presidente della Lombardia Attilio Fontana e dal ministro dalla Sanità Roberto Speranza che blindava in entrata e in uscita dieci paesi del lodigiano, mentre per la provincia di Bergamo non sia bastata una settimana, a fronte di dati molto più allarmanti.

Ciò che emerge dall’inchiesta del Corriere è innanzitutto un ritardo, da parte delle autorità lombarde, nell’allertare la Protezione Civile sui dati della Bergamasca:

I primi cinque report quotidiani che a partire dalla mattina del 21 febbraio la Regione Lombardia invia alla Protezione civile non fanno alcun cenno alla situazione della provincia di Bergamo. Per quasi una settimana, in calce al documento verranno indicati i focolai identificati fino a quel momento. Ne sono sempre citati quattro, tutti nel lodigiano. Eppure già il 27 febbraio appare evidente che in provincia di Bergamo qualcosa sta andando come peggio non potrebbe. Settantadue nuovi casi di positività, diciannove dei quali, e tre decessi, fanno di Nembro il quarto Comune più colpito di Lombardia, alla pari con Casalpusterlengo, che insieme agli altri tre è nella zona rossa.

Il 3 marzo il Comitato tecnico scientifico “propone di adottare le opportune misure restrittive già adottate nei Comuni della “zona rossa” al fine di limitare la diffusione dell’infezione nelle aree contigue”. La stretta sembra essere a un passo, eppure non succede nulla, e così sarà fino alla decisione di far diventare tutta Italia “zona arancione” a patire dal 9 marzo. Il parere degli scienziati, però, era chiaro:

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La sera del 5 marzo il presidente dell’Iss Brusaferro sottolinea in nota scritta a Palazzo Chigi: “Pur riscontrandosi un trend simile ad altri Comuni della Regione, i dati in possesso rendono opportuna l’adozione di un provvedimento che inserisca Alzano Lombardo e Nembro nella zona rossa”.

Venerdì 6 marzo Conte va di persona alla Protezione civile, dove incontra i membri del Comitato scientifico per la decisione definitiva. Ancora una volta, non se ne fa nulla.

Passa infatti la linea di “superare la distinzione tra “zona rossa”, “zona arancione” e resto del territorio nazionale in favore di una soluzione ben più rigorosa”. Si arriva così al 7 marzo, con l’annuncio alle due di notte della chiusura dell’Italia intera, e il decreto firmato la sera dell’8 marzo ed entrato in vigore il giorno seguente, quando Alzano conta 55 contagiati, Nembro 107, la provincia di Bergamo 1245, per tacere dei morti. La Lombardia è zona rossa, come il resto del Paese. Da quella prima richiesta sono passati ormai sei giorni.

Il Corriere mette in luce il rimpallo di responsabilità tra governo e Regione. Un rimpallo che va avanti anche stamattina. “Era lo Stato che doveva fare la chiusura della zona rossa nella Bergamasca. La chiusura della prima zona rossa nel Lodigiano è avvenuta con un Dpcm la domenica, così doveva avvenire con la Bergamasca”, attacca stamattina l’assessore al Welfare Giulio Gallera, ospite a Rai3 Agorà. “Nelle nostre competenze – continua – non rientra disporre di forze dell’ordine e forze armate. Ci siamo confrontati con il prefetto e ci ha detto ‘non potete essere voi a dirci quello che dobbiamo fare’”.

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