La mia amicizia con Craxi: uniti dal cuore socialista, da Garibaldi e da Totò
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La mia amicizia con Craxi: uniti dal cuore socialista, da Garibaldi e da Totò

Gli anniversari spesso sono utili non soltanto per ricordare una persona che ci ha lasciato, ma anche per riflettere serenamente sulla loro vicenda umana e anche sulla loro eredità culturale e sociale.

Bettino Craxi
Bettino Craxi
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Giancarlo Governi Modifica articolo

10 Gennaio 2020 - 15.54


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Gli anniversari spesso sono utili non soltanto per ricordare una persona che ci ha lasciato, ma anche per riflettere serenamente sulla loro vicenda umana e anche sulla loro eredità culturale e sociale.

È il caso dei venti anni dalla morte di Bettino Craxi. L’anniversario ma anche questo film, che ancora non ho visto, ma che ci ha rivelato (sarebbe meglio dire confermato) un attore straordinario come Pierfrancesco Favino, ci hanno riproposto prepotentemente il personaggio pubblico e la figura umana del leader di un partito, il padre della sinistra italiana, che oggi è scomparso e di cui si sente sempre più forte la mancanza in questo misero panorama politico attuale.
Anche io voglio fare la mia riflessione su Bettino Craxi, che ho conosciuto bene e anche frequentato nel privato. La nostra fu una vera amicizia nata su due passioni forti che avevamo in comune, quella per Giuseppe Garibaldi e quella per Totò. E fu proprio Totò a far scattare la scintilla dell’amicizia con Bettino. Avevo fatto un programma monstre che aveva rilanciato a livello nazionale e popolare la figura di Totò, a 13 anni dalla scomparsa. Un consigliere di amministrazione della Rai, Massimo Pini, mi chiese le cassette del programma da regalare a Craxi. Quando gliele portai, Pini mi disse “portagliele tu” e mi prese un appuntamento con il segretario del Partito Socialista, che io socialista di fede e di orientamento lombardiano e poi giolittiano, guardavo con diffidenza.
L’incontro fu al Raphael, dove mi invitò a pranzo, durante il quale parlammo esclusivamente di Totò e anche un po’ di Garibaldi.
Ci incontrammo molte altre volte, al Raphael e talvolta a casa di Franco e Sandra Carraro, che abitavano a Via Garibaldi, sotto il Gianicolo in una casa che era stata la sede dell’Accademia dell’Arcadia.
Anni dopo Bettino mi invitò a casa sua, a Milano, a via Foppa, per farmi vedere i suoi tesori garibaldini che raccoglieva con passione e competenza. In quella occasione mi fece omaggio di una manifesto originale, in cui si lanciava la sottoscrizione per l’acquisto dei fucili prima dell’Impresa, un omaggio che conservo gelosamente a casa mia.
Una volta soltanto lo disturbai per motivi politici, fu quando Enzo Tortora nel suo ultimo programma Giallo, voleva dedicare una intera puntata al “giallo” della uccisione di Aldo Moro. La cosa era molto delicata dal punto di vista politico e andai a parlarne con il direttore generale Biagio Agnes, il quale se ne lavò le mani e mi disse di andare a parlarne con Craxi.
Craxi, che era a quell’epoca presidente del Consiglio, mi ricevette a Milano nel suo studio di piazza Duomo. Mi fece entrare in un salottino, tutto insonorizzato e “Qui si può parlare liberamente senza essere registrati” mi disse. E mi raccontò tutti i segreti del sequestro e della uccisione di Aldo Moro, che io dimenticai appena uscito da Piazza Duomo, come dopo un incidente in cui si è battuta la testa.
Nel 1987, la sua stima nei miei confronti lo aveva portato a propormi alla direzione di Raidue, ma la cosa, anziché favorirmi, in un certo senso mi danneggiò perché fui osteggiato da tutti i socialisti che contavano sulle cose della Rai che, evidentemente, mi consideravano un corpo estraneo non manovrabile. Non diventai direttore di Raidue ma fui osteggiato da chi prese quel posto, tanto che fui costretto lasciare Raidue per andare a Raiuno, e nel cambio ci guadagnai molto.
La sua passione per Garibaldi lo aveva portato ad essere uno dei maggiori esperti dell’Eroe. Nel 1982, nel Centenario della morte, pronunciò sul Gianicolo un discorso altissimo. Una volta gli chiesi “perché non scrivi?”. Mi rispose “faccio un altro mestiere”. Non so se nell’esilio avesse continuato a coltivare la passione garibaldina.
Quando ci fu la tragedia di tangentopoli e la sua conseguente partenza per Hammamet, non lo cercai più, non gli telefonai e non andai neppure a trovarlo, come se lo avessi cancellato dalla mia vita. Seppi delle sue sofferenze e della sua morte assurda, curato da medici premurosi ma inadeguati, da quelli che invece non lo avevano abbandonato, come Umberto, il suo fotografo che lui amava come un figlio.
Il giorno dopo i suoi funerali, incontrai in un ristorante romano i figli Stefania e Bobo, di ritorno dalla Tunisia. Bobo mi disse: “l’ultima volta che ho visto la televisione insieme a mio padre, abbiamo guardato il tuo programma sul Grande Torino (tu sai che papà era tifoso del Toro); papà commentò: “hai visto che Giancarlo è sempre bravo”. Io lo avevo dimenticato ma lui non mi aveva dimenticato. Gli chiedo scusa pubblicamente ora.

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