Una nuova nave nel Mediterraneo, giudici coraggiosi a Venezia: due buone notizie sul fronte migranti

Life Support è lunga 51,3 metri, larga 12 metri e pesa 1.346 tonnellate. Può accogliere fino a 175 persone oltre al personale di bordo. È una nave di Emergency

Una nuova nave nel Mediterraneo, giudici coraggiosi a Venezia: due buone notizie sul fronte migranti
La nave Life support di Emergency
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

4 Settembre 2022 - 17.58


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Una nuova nave salvavite nel Mediterraneo. Giudici coraggiosi a Venezia. Due buone notizie sul fronte migranti.

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Life Support

Emergency ha annunciato di aver comprato una nave per soccorrere le persone migranti che rischiano la vita attraversando il mar Mediterraneo. La nave si chiama Life Support ed è attraccata al porto di Genova per lavori in vista delle prime missioni che inizieranno nei prossimi mesi.

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Life Support è lunga 51,3 metri, larga 12 metri e pesa 1.346 tonnellate. Può accogliere fino a 175 persone oltre al personale di bordo. Lo staff dell’Ong a bordo della nave sarà composto da un coordinatore, un medico, infermieri, mediatori, soccorritori e personale dedicato alla logistica. Un ponte di circa 250 metri quadri della nave è stato allestito da Emergency come punto di ricovero e accoglienza delle persone soccorse: è stato completamente coperto e ospiterà un ambulatorio medico, servizi igienici aggiuntivi e posti letto.

«A un anno dalla perdita di Gino, siamo pronti a dare vita a questo nuovo progetto», ha detto Pietro Parrino, direttore del Field Operations Department, riferendosi a Gino Strada, medico e fondatore di Emergency, morto il 13 agosto 2021 a 73 anni. «La Life Support realizza un progetto a lungo voluto e pensato insieme a Gino per supportare chi soffre e rappresentare chi ritiene non si possa stare a guardare. L’attività di ricerca e salvataggio in mare da parte delle Ong è un argomento spesso divisivo ma salvare vite non può essere divisivo, mai. Questo è il nostro punto di partenza, anche questa volta».

Emergency ha già partecipato ad attività di ricerca e soccorso promosse da altre organizzazioni nel Mediterraneo: nel 2016 ha garantito assistenza medica e mediazione culturale sulla nave Topaz Responder dell’associazione MOAS (Migrant Offshore Aid Station). Nell’estate del 2019 è iniziata la collaborazione con la Ong spagnola Proactiva Open Arms a bordo dell’omonima nave. Le missioni insieme a Open Arms sono proseguite fino al marzo 2022 per un totale di duemila soccorsi in mare.

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Migranti climatici

L’altra buona notizia viene da Venezia. Anche i cambiamenti climatici possono diventare un motivo più che sufficiente per accordare un permesso di protezione sussidiaria: questo emerge dalla sentenza pronunciata dal Tribunale di Venezia nei confronti di un 33enne originario del Niger.

La richiesta, inoltrata nel 2019, era stata inizialmente rispedita al mittente dalla Commissione territoriale di Treviso. Tutto è cambiato pochi giorni fa, quando i giudici della sezione dedicata a questioni connesse all’immigrazione hanno deciso invece di accogliere l’istanza, producendo un documento di ben 23 pagine per motivare la propria scelta. Una scelta influenzata anche dalle recenti alluvioni che hanno colpito il Paese di origine del giovane nigerino.

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Quest’ultimo era giunto in Italia nel novembre del 2016. Stando alla versione dei fatti da lui fornita alle autorità, la decisione di abbandonare la propria terra sarebbe scaturita da un attacco terroristico al mercato di Bosso attribuito a Boko Haram. Il giovane, come riportato da Il Gazzettino, aveva “visto la folla scappare, le abitazioni e i negozi bruciare, le donne sequestrate e la gente uccisa. A ciò sarebbe seguita la fuga in camion verso la Libia, l’arresto nel deserto da parte dei soldati libici, lo sbarco in Italia e la domanda di protezione internazionale. Un’istanza, come detto, inizialmente rigettata dalla Commissione territoriale di Treviso.

La sentenza

Il Tribunale di Venezia ha deciso di accogliere il ricorso, proponendo delle motivazioni che includono anche i cambiamenti climatici. “La crisi nigerina è strettamente collegata alla crisi che ha colpito il Sahel nell’ultimo decennio e all’aumento dell’attività di gruppi terroristici di ispirazione islamista nella zona”, spiega il collegio, “più di 13 milioni di persone tra cui 5 milioni di bambini in tre paesi hanno bisogno urgente di assistenza umanitaria e di cibo, alloggio, accesso ad acqua potabile, a servizi sanitari e all’istruzione”. Ma stavolta non è solo l’instabilità politica del Paese a incidere, quanto le mutate condizioni climatiche. Dall’agosto 2020 inoltre, il Niger sta affrontando le peggiori inondazioni della sua storia, che hanno colpito oltre mezzo milione di persone in una sola stagione”, si legge nel documento. “Le forti piogge, insieme all’aumento del livello dell’acqua nei principali bacini fluviali, hanno portato a gravi inondazioni in tutto il Paese, con una gran parte dei terreni ancora inondati e danni diffusi alle attrezzature agricole, al bestiame e alla pesca, nonché ai raccolti”.

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L’insicurezza alimentare, secondo i giudici, ha aggravato la situazione umanitaria del Paese, “legata principalmente agli spostamenti della popolazione a causa delle violenze perpetrate dai gruppi armati, agli effetti del cambiamento climatico e alla pandemia di Covid-19”. “Il Niger è identificato tra i 10 paesi maggiormente vulnerabili ai cambiamenti climatici dall’indice Notre Dame”, dichiarano i giudici. 

Emergenza primaria

“Incontrovertibile. Il gruppo di 234 esperti di sessantasei differenti Paesi, riuniti sotto l’egida Onu, non ha più alcun dubbio. Nel nuovo rapporto – il sesto –, l’Intergovernmental panel on climate change (Ipcc) fa piazza pulita dei pochi spiragli di incertezza ancora presenti nel precedente studio, risalente al 2013. Dopo aver esaminato oltre 14mila articoli e pubblicazioni scientifiche, gli scienziati sono giunti alla certezza della responsabilità umana nel riscaldamento globale. 

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Sono stati gli uomini e le donne dell’era industriale e post a «surriscaldare l’atmosfera, gli oceani e la terra» generando «cambiamenti rapidi e irreversibili» nel pianeta. In particolare, a partire dal XIX secolo, le emissioni prodotte dalle energie fossili hanno fatto aumentare la temperatura di 1,1 gradi. 

Mai prima si era arrivati a tanto, come dimostra la più significativa riduzione dei ghiacciai in due millenni e l’intensificarsi dei fenomeni atmosferici estremi, a cominciare dagli uragani.

E questo è solo l’inizio. Anche se le nazioni facessero tagli drastici e immediati alla quantità di gas immessi nell’atmosfera, non riuscirebbero ad evitare un riscaldamento climatico di almeno 1,5 gradi entro i prossimi venti o trent’anni. Un prossimo futuro più caldo – il termine di riferimento è il 2050 – è, dunque, assicurato. Con ciò che questo comporta: ondate di calore più frequenti per territori dove vive un miliardo di persone, siccità prolungate e la scomparsa di alcune specie animali e vegetali. Non tutto, però, è perduto.

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Lo studio dell’Ipcc non è un «profeta di sventure». Si tratta, al contrario, come ha affermato il segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, di un «codice rosso per l’umanità». Un «assordante campanello d’allarme» – ha aggiunto – affinché la comunità internazionale si decida ad agire. Nella consapevolezza che, con uno sforzo repentino e condiviso, il peggio può e deve essere evitato. Contenendo il riscaldamento entro un livello «accettabile» o almeno compatibile con una vita degna: due gradi in centro anni. 

Il nodo cruciale è smettere di aggiungere CO2 a un’atmosfera già satura: la concentrazione di diossido di carbonio è al massimo rispetto ai livelli degli ultimi due milioni di anni, quella di metano e ossido nitroso è la maggiore in 800mila anni. Per raggiungere tale obiettivo, l’unica strada è l’abbandono progressivo delle fonti fossili, per arrivare a un tasso di “emissioni zero” nel 2050. Solo così, l’aumento delle temperature nell’arco di questo secolo resterà contenuto entro i due gradi. In caso contrario, nel 2.100 andrà ben oltre, con picchi di calore a ritmo crescente. 

Addirittura si rischia di sfiorare la soglia dei 4,4 gradi: fatto che implicherebbe caldo killer in pratica ogni anno e un innalzamento del livello del mare di oltre un metro, per lo scioglimento della calotta polare in Antartide e Groenlandia. A questi effetti prevedibili – e minuziosamente descritto dall’Ipcc in cinque simulazioni –, si sommano una serie di eventi imprevisti, come l’attuale rallentamento del sistema di circolazione oceanica nell’Atlantico, vitale per stabilizzare il clima in Europa. 

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Di certo, un aumento di oltre i due gradi, rappresenterebbe un punto di non ritorno: l’ultima volta che il clima ha subito un riscaldamento di 2,5 gradi è stato tre milioni di anni fa, quando ancora non c’era l’essere umano.

Lo scenario è chiaro. La scienza si è espressa senza tentennamenti. Ora la parola passa alla politica. Il rapporto dell’Ipcc sarà sulle scrivanie dei leader internazionali chiamati dall’Onu a Glasgow a novembre per fare il punto sull’accordo di Parigi. E, magari, cercare di andare oltre. Come promesso di recente da Usa e Ue, impegnate ad azzerare le emissioni entro il 2050. 

«Non possiamo aspettare. I costi dell’inazione continuano a salire», ha affermato il presidente Joe Biden mentre l’inviato speciale statunitense per il clima, John Kerry, ha chiesto alle «maggiori economie di agire con decisione nei prossimi dieci anni». «L’Ue sta facendo la sua parte. Tutti devono contribuire», ha dichiarato la presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen. «Mettiamo fine ai combustibili fossili prima che distruggono il pianeta», ha aggiunto il premier britannico Boris Johnson. E il presidente francese, Emmanuel Macron, ha chiesto una risposta «proporzionata all’emergenza». Sulla carta, le premesse sono buone. Ora, però, si tratta di passare dalle dichiarazioni di principio agli impegni. Il vertice climatico di Glasgow sarà la prova del fuoco”.

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Così scrive Lucia Capuzzi su Avvenire del 9 agosto 2021. Come è andato a finire il vertice di Glasgow è storia: l’ennesima occasione perduta, un fallimento annunciato. Una indigeribile melassa di buoni intendimenti rimasti tali, senza alcuna concretizzazione.

Le parole di Francesco

Il fenomeno del cambiamento climatico è diventato un’emergenza che non resta più ai margini della società. Ha assunto un posto centrale, rimodellando non solo i sistemi industriali e agricoli, ma anche colpendo negativamente la famiglia umana globale, in particolare i poveri e coloro che vivono alle periferie economiche del nostro mondo”. Dall’agenzia Sir: “Torna a parlare dell’emergenza climatica Papa Francesco e lo fa oggi in un messaggio inviato ai partecipanti alla Conferenza promossa dalla Pontificia Accademia delle Scienze sul tema “Resilience of People and Ecosystems under Climate Stress”, che si svolge in Vaticano, presso la Casina Pio IV il 13 e il 14 luglio. “Oggi – scrive il Papa – ci troviamo di fronte a due sfide: ridurre i rischi climatici riducendo le emissioni e assistere e consentire alle persone di adattarsi al progressivo peggioramento dei cambiamenti climatici. Queste sfide ci invitano a pensare a un approccio multidimensionale per proteggere sia gli individui che il nostro pianeta”. Il Santo Padre ricorda che, nel Libro della Genesi, il Signore affidò all’uomo la responsabilità di essere amministratore del dono della creazione. “Alla luce di questi insegnamenti biblici, quindi, prendersi cura della nostra casa comune, anche a prescindere dalle considerazioni sugli effetti del cambiamento climatico, non è semplicemente uno sforzo utilitaristico, ma un obbligo morale per tutti gli uomini e le donne in quanto figli di Dio”, scrive Francesco. Nel messaggio, il Papa invita a chiedersi: “Che tipo di mondo vogliamo per noi stessi e per coloro che verranno dopo di noi?”. E rilancia quella “conversione ecologica” che propose nella Laudato sì e che, aggiunge, “richiede un cambiamento di mentalità e un impegno a lavorare per la resilienza delle persone e degli ecosistemi in cui vivono”. Il Papa torna a chiedere “sforzi coraggiosi, cooperativi e lungimiranti” e si rivolge ai leader religiosi, politici, sociali e culturali perché si trovino “soluzioni concrete ai gravi e crescenti problemi che stiamo affrontando”. Due “ulteriori” preoccupazioni si sono aggiunte, dice Francesco: la perdita di biodiversità e “le numerose guerre in corso in varie regioni del mondo che insieme portano con sé conseguenze dannose per la sopravvivenza e il benessere dell’uomo, compresi problemi della sicurezza alimentare e dell’aumento dell’inquinamento”. Queste crisi, insieme a quella del clima terrestre, dimostrano che “tutto è connesso” e che “promuovere il bene comune a lungo termine del nostro pianeta è essenziale per una vera conversione ecologica”. Nel ringraziare i partecipanti al convegno per il lavoro di questi giorni dedicato all’esame dell’impatto dei cambiamenti nel nostro clima e alla ricerca di soluzioni pratiche, il Santo Padre conclude: “Lavorando insieme, uomini e donne di buona volontà possono affrontare la portata e la complessità delle questioni che ci attendono, proteggere la famiglia umana e il dono della creazione di Dio dagli estremi climatici e promuovere i beni della giustizia e della pace”.

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Così il Papa il 13 luglio 2022. E la politica? Silente. Ma questa è una non notizia. Purtroppo.

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