Strage di Lampedusa, arrivano 7 condanne: non si fermarono a soccorrere

Per la tragedia del 3 ottobre 2013 condannati per omissione di soccorso sette componenti dell'equipaggio del peschereccio “Aristeus"

La strage di Lampedusa del 3 ottobre 2013
La strage di Lampedusa del 3 ottobre 2013
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9 Dicembre 2020 - 17.02


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Tre ottobre del 2013, una imbarcazione stracolma di migranti è in difficoltà al largo di Lampedusa, chiede invano aiuto. Niente. E’ strage, muoiono in 366. Una delle pagine più tragiche del Mediterraneo. Oggi, per quei soccorsi negati sono stati condannati sette componenti dell’equipaggio del peschereccio “Aristeus”, accusati di non essersi fermati a soccorrere l’imbarcazione, stracolma all’inverosimile con almeno 520 immigrati, che stava per colare a picco. Sono stati riconosciuti colpevoli di omissione di soccorso.
La pena più alta – 6 anni di reclusione – è stata inflitta al comandante. Si tratta di Matteo Gancitano, 67 anni, di Mazara del Vallo, Quattro anni ciascuno ai componenti dell’equipaggio, quattro dei quali sono africani (tre tunisini e un senegalese) e due mazaresi, Alfonso Di Natale e Vittorio Cusumano. 
L’imbarcazione stava per affondare e l’equipaggio del peschereccio proseguì senza fermarsi a soccorrere i profughi né tantomeno avvisare le autorità. È questa l’ipotesi fatta propria dalla Procura della Repubblica di Agrigento – l’inchiesta è stata condotta dal procuratore Luigi Patronaggio e dal pm Andrea Maggioni, l’accusa in giudizio è stata rappresentata dal pm Gloria Andreoli – che ha avuto adesso il vaglio del tribunale. 
L’inchiesta fu avviata sulla base delle denunce dei sopravvissuti. Raccontarono di avere visto passare un peschereccio che, nonostante i segnali di allarme, non si prestò a soccorrerli né si curò di avvertire le autorità marittime. Gli imputati, sentiti durante le indagini, hanno respinto le accuse sostenendo di non essersi fermati e di non avere allertato i soccorsi perché non avevano compreso che l’imbarcazione si trovava in difficoltà. 
“Siamo partiti due giorni fa dal porto libico di Misurata, – hanno raccontato alcuni superstiti – su quel barcone eravamo in 500. Non riuscivamo nemmeno a muoverci. Durante la traversata tre pescherecci ci hanno visto ma non ci hanno soccorso”.
Oltre ai superstiti aveva confermato questa versione lo stesso scafista dell’imbarcazione – Khaled Bensalem, 36 anni, tunisino – arrestato pochi giorni dopo e condannato definitivamente a 18 anni di carcere per omicidio colposo plurimo, naufragio e favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Bensalem era stato indicato dai superstiti.
I sopravvissuti, quasi tutti eritrei e quindi molto più scuri di lui, interrogati dalla squadra mobile di Agrigento, lo avevano definito “white man”: uomo bianco. Il suo assistente, anch’esso tunisino, sarebbe morto nel naufragio. Incrociando le testimonianze dei superstiti e mostrando loro la foto di Bensalem è arrivata la conferma ai sospetti. Il tunisino era stato espulso come clandestino dopo lo sbarco dell’aprile precedente e aveva organizzato una nuova traversata rivelatasi una strage.

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La “carretta del mare” venne caricata all’inverosimile e lo scafista quando, a distanza di parecchie miglia dalla costa di Lampedusa, iniziò a imbarcare acqua, avrebbe dato fuoco a delle lenzuola per farsi notare provocando, invece, il panico e uno spostamento di massa che la fece ribaltare
Fu Bensalem a dire che, un peschereccio era passato davanti e aveva proseguito, nonostante i vistosi cenni di tutti i migranti. È stato questo il primo spunto per l’inchiesta. La procura, oltre a raccogliere le testimonianze, ha disposto una complessa consulenza tecnica per ricostruire il percorso seguito dal peschereccio attraverso il segnale del gps.

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