Il buio oltre lo stupro
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Il buio oltre lo stupro

Un racconto di Claudio Visani, classificato terzo al Premio nazionale di narrativa "storie inaspettate" promosso dalla Fitel, Federazione italiana del tempo libero, fondazione delle confederazioni sindacali Cgil, Cisl e Uil.

Per le donne
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25 Novembre 2020 - 17.53


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Questo racconto di Claudio Visani, scritto al femminile, nei panni di una donna che ha subito violenza, si è classificato terzo al Premio nazionale di narrativa “storie inaspettate” promosso dalla Fitel, Federazione italiana del tempo libero, fondazione delle confederazioni sindacali Cgil, Cisl e Uil.

Mi è venuto sopra. Mi ha bloccata a terra. Mi guardava e diceva: puttana, perché vuoi lasciarmi? Poi ha cominciato a stringermi i seni e a toccarmi in mezzo alle gambe. Quando provavo a reagire, la mano che mi teneva immobilizzata si stringeva sul collo fin quasi a soffocarmi. Con l’altra, schiaffi e pugni nello stomaco. Piantato per terra, il suo coltello. Ho pensato che mi avrebbe uccisa. Che tra me e la morte c’era una sottile linea di confine. Mi sono sentita esausta. Ho smesso di lottare. Speravo soltanto che finisse prima possibile. Gli ho detto di fare quello che voleva. Lui mi ha sfilato una gamba dei jeans e le mutandine, mi ha aperto la camicia e strappato il reggiseno. Poi si è messo tra le mie gambe, in ginocchio, divaricandole. Mi è entrato dentro. Diceva: muoviti puttana, fammi godere. 

Mi chiamo Mara. Ho trentasei anni ma ora me ne sento dieci di più. Sono seduta sulla poltrona dello studio di Stefania, la psicologa del centro antiviolenza. Sono spossata. Piegata in avanti. I gomiti appoggiati sulle ginocchia. La testa tra le mani. Sto piangendo. Lei è dolce. Parla con gli occhi. Sa ascoltare. Si capisce che ne ha viste tante di donne come me. Violentate. Derubate di un pezzo di vita e della loro dignità. Mi allunga un fazzoletto di carta. Lo prendo. Mi asciugo le lacrime. Tiro su col naso. Reclino la testa all’indietro e distendo le braccia. Respiro. Stefania appoggia le sue mani sulle mie. Vede la fatica che faccio. Chissà quante ne ha sentite di storie così. Sa cosa provo. Cattura il mio sguardo. Mi invita ad andare avanti. Devo farlo. Sono qui per raccontare. Per provare a liberarmi dei miei incubi e delle mie paure. Per prepararmi psicologicamente al processo. 

Davide l’ho conosciuto in discoteca, tre anni fa. Mi ero separata da poco. Dal matrimonio era nata Laura, che oggi ha 10 anni. Lei è un angelo. Michele invece, il padre e mio ex marito, era un violento. L’ho scoperto tardi, quando Laura aveva già tre o quattro anni. Lui aveva perso il lavoro. Era diventato nervoso. Il nostro ménage peggiorava giorno dopo giorno. Quando litigavamo, e accadeva sempre più spesso, mi metteva le mani addosso. Picchiava anche la bambina, quando faceva le frigne. Mi ribellai. Volevo lasciarlo. Non le accettavo quelle violenze. Poi ho pensato che fossero passeggere. Dovute alla disoccupazione. Così ho tirato avanti. Lui ha trovato un altro lavoro ma le violenze non si sono fermate. Per un po’ ho cercato di resistere, di salvare il nostro rapporto, la famiglia. L’ho anche portato dallo psicologo, con me, per una terapia di coppia. Ma veniva mal volentieri. E non si metteva in discussione. Quando ho scoperto che aveva anche un’amante non ce l’ho fatta più. Ho deciso di separarmi. Michele mi ha fatto penare fino all’ultimo. Poi si è deciso a firmare la consensuale. A convincerlo dev’essere stata l’amante di cui si era innamorato, non io. 

Non è stato facile, dopo. Sola, la figlia da seguire, la casa da accudire, il lavoro. Ma pian piano sono riemersa. Quando la mia vita ha cominciato ad andare meglio mi è tornata la voglia di uscire, di divertirmi. Sono ancora giovane. Non sono scaduta. A ballare ho incontrato Davide. Lui è più grande di me. Un bell’uomo. Alto, muscoloso, occhi chiari, piercing all’orecchio sinistro, codino. Mi guardava e mi ballava attorno con lo sguardo leggero e sorridente, senza fissarmi come fanno certi maschi famelici. Anch’io gli ho sorriso. Ci siamo presentati. Lui è stato simpatico. Io avevo voglia di fare qualche incontro, di un bel maschio. Era da prima della separazione che non facevo l’amore. Laura era da mia madre. Me lo sono portato a letto quella sera, a casa mia. È stato come rinascere. Lui è molto bravo a letto. Ma è anche simpatico, gentile, premuroso. Mi è sembrato un uomo buono. All’inizio. Abbiamo cominciato a frequentarci. L’intesa tra noi, a letto e fuori, cresceva. Davide era divorziato, senza figli. Del suo passato sapevo poco e niente. Lui non ne parlava quasi mai. Gli ho fatto conoscere Laura. È stato simpatico e dolce. All’inizio. A mia figlia è piaciuto. Ha cominciato a dormire a casa mia, spesso. Laura sembrava averlo accettato. Poi, dopo qualche mese che ci frequentavamo, mi ha chiesto se poteva trasferirsi da me. Anche per comodità e vantaggio economico per tutti e due, ha detto. È stato convincente. Mi piaceva e mi dava fiducia. All’inizio. Ho deciso di buttarmi in quella nuova storia. 

Abbiamo cominciato a convivere. È stato il mio compagno per 18 mesi. Le cose andavano bene, all’inizio. Poi, una sera che Laura era di cattivo umore, lui le ha chiesto di fare una cosa, lei si è rifiutata e gli ha risposto male. L’ha presa per un braccio e le ha mollato uno schiaffo in viso. Io ho cacciato un urlo, gli ho strappato Laura dalle mani, lei è scappata nella sua cameretta, sono andata a consolarla. Nella mia mente sono riemerse le immagini del passato, le violenze del mio ex. Quando sono rientrata nel salotto era furioso. E io più di lui. Mi ha detto che non dovevo mai più permettermi di intervenire, di contraddirlo. Che lui così la educava bene, mia figlia. Lo sguardo era diventato cattivo. Ho capito in quel momento che la sua bontà e gentilezza erano solo apparenza. Che era doppio. E il suo doppio era violento. Gli ho risposto che se si fosse provato ad alzare le mani un’altra volta lo avrei cacciato di casa. E invece l’ha fatto ancora. Prima con Laura, poi come me. Perché l’ho difesa. Perché l’ho contraddetto. Perché gli ho gridato che quelle mani se le doveva mettere nel culo. Che la violenza non era ammessa in quella casa. Che io avevo già dato. E dopo perché ho rifiutato i suoi tentativi di pacificazione, le sue avances. Il giorno dopo gli ho fatto trovare le valigie pronte, gli ho preso le chiavi, l’ho cacciato di casa. E poi…. 

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Mi viene di nuovo da piangere. Sento le lacrime scivolarmi sulle guance. Stefania mi guarda con tenerezza. Mi allunga un altro fazzoletto. Mi prende di nuovo le mani. Mi incoraggia a continuare il racconto. 

 

Parte 2 

 

Lui non ha accettato la mia decisione. Ha cominciato a tempestarmi di telefonate, di messaggi. A tutte le ore del giorno e della notte. All’inizio qualche volta rispondevo. Mi diceva che nessuna donna l’aveva mai trattato così. Che si era sentito umiliato dai miei rifiuti di fare pace, di fare all’amore. Insinuava che avessi un amante. Ho provato a spiegargli che non era vero. Che l’unico rifiuto era la violenza. Non è servito a niente. Mi ha coperto di insulti. Ho smesso di rispondergli. Quando ho visto che mi controllava anche sui social, che pubblicava post contro di me, l’ho bannato. Poi mi sono accorta che mi seguiva. Che mi faceva la posta davanti a casa e all’uscita dal lavoro. Ho avuto paura. Quando lo vedevo appostato non uscivo più da sola. Cercavo sempre la compagnia di qualcuno: un vicino di casa, una collega, un amico. Lui se ne stava a distanza, immobile. Mi guardava fisso, lo sguardo truce, senza dire niente. Era inquietante. Poi una sera, il 28 luglio, mentre uscivo per andare al cinema con un’amica, è spuntato dall’oscurità, sotto casa. Mi ha afferrato alle spalle. Mi ha girato il braccio sinistro attorno al collo. Nella mano destra ho visto che aveva un coltello. Mi ha costretta a salire sulla sua auto, mi ha portata in quel parco. 

Sono esausta. Stefania se ne accorge. E il tempo è scaduto. Mi dice che per oggi basta così. Si alza. Mi abbraccia. “Adesso rilassati. Vai a riposare. Domani abbiamo un’altra seduta impegnativa. Prima del processo”. 

Non riesco a rilassarmi. A pensare ad altro. Tornando verso casa rimetto in fila i ricordi. Rivedo quella sera. Davide, quel delinquente e finto buono di Davide, mi ha lasciata lì, nel parco. Mezza svestita. Umiliata. Distrutta. Per un attimo, ne sono certa, dopo la violenza ha pensato di tagliarmi la gola. L’ho letto nei suoi occhi. In quel suo sguardo cattivo. Il coltello era lì, piantato a terra, a portata di mano. È a quel punto che ho gridato aiuto. Lui ha afferrato la lama. Poi, per un attimo, si è fermato. Subito non ho capito perché. Cosa gli passava per la testa. Se aveva visto qualcuno. O sentito qualcosa. In quel momento è avvenuto il miracolo. 

“Ehi, cosa fai lì? Fermati. Lascia stare quella donna”. La voce è arrivata dal sentiero poco distante da noi. Era la voce forte e decisa di un uomo anziano. Stava portando a spasso il cane. In mano aveva una torcia. L’ha puntata su di noi. Ha visto la scena. Ha gridato di nuovo: “Fermo!”. Davide si è alzato di scatto. Ho temuto il peggio. Invece ha chiuso il coltello e l’ha messo in tasca. Con l’altra ha frugato nei pantaloni. Poi, ad alta voce, per farsi sentire da quell’uomo che continuava ad osservarci, immobile, dal sentiero, puntando la torcia, ha detto: “Sei solo una puttana, questo è quello che vali”. E mi ha gettato sopra una banconota da 50 euro. “Che ti serva da lezione. Non mi faccio trattare così da una puttanella come te. Mi sono preso quello che mi hai negato. Che mi spetta. Pagando”. Poi si è rivolto direttamente all’uomo con la torcia e il cane: “Che cazzo guardi? Hai capito che è solo una puttana?”. Prima di allontanarsi mi ha sibilato, sottovoce: “Se parli, la prossima volta ti ammazzo. Tu e la tua Laura”. Poi se n’è andato in fretta. 

Mi sono alzata, rivestita alla meglio. Stavo in piedi per miracolo. Mi sentivo svenire. Non tanto per il dolore. Per l’umiliazione. Per lo schifo. Per lo sperma che mi sentivo uscire. L’uomo col cane e la torcia si è avvicinato. Era alto e robusto. “Cos’è successo? Come sta? È ferita? ha bisogno di aiuto?”. Gli ho buttato le braccia al collo. Tremavo. “Lei mi ha salvato la vita. Non sono una puttana”. Gli ho raccontato brevemente quello che mi era accaduto. Gli ho chiesto se poteva accompagnarmi alla Polizia. Dentro di me sentivo la rabbia che saliva. Saliva, fino a scacciare la paura. Ero determinata a non fargliela passare liscia, questa volta, a quell’animale. Mi sono aggrappata a quell’uomo coraggioso e l’ho seguito fino a casa sua. Fuori c’era la sua auto parcheggiata. Ha caricato il cane dietro e mi ha aiutato a salire. Mi ha portato al Commissariato. Sono entrata con lui. Ha spiegato a un agente perché ero lì. Cosa volevo fare. Mi hanno fatto accomodare in una stanza. Hanno mandato una poliziotta a raccogliere la testimonianza. È stata gentile. Mi ha ascoltata. Ha chiesto una descrizione di Davide, notizie su di lui, informazioni sui posti che frequentava. Non mi ha fatto domande imbarazzanti. Mi ha consigliata su cosa mettere nella denuncia, per renderla più efficace. Poi mi ha accompagnato all’ospedale dove un’altra donna mi ha visitata. Ha visto i lividi che avevo sulle braccia, nel collo. Mi ha fatto fare il tampone vaginale per raccogliere le tracce di sperma. Dall’ospedale ho chiamato mia madre. Le ho raccontato i fatti, più o meno. Mi sono raccomandata che non dicesse niente a Laura, che dormiva da lei. Nella sala d’attesa ho riabbracciato il mio salvatore. Aveva testimoniato, poi era venuto all’ospedale. Era rimasto lì ad aspettare, assieme alla poliziotta. Poi una infermiera mi ha accompagnato in una stanza singola. Mi ha dato un sedativo. Sono crollata. La mattina dopo la poliziotta è entrata nella stanza con il sorriso. “L’abbiamo preso”, ha detto. “Era in discoteca. Stava ballando. Come se niente fosse accaduto”. Il magistrato ha convalidato il fermo. L’hanno tenuto dentro. Dopo domani c’è il processo. 

 

Parte 3 

 

“C’è una seconda, doppia violenza che le donne stuprate sono costrette a patire nei processi. La vergogna e i sensi di colpa. Ci sono avvocati molto abili nel metterle a disagio e nel farle sentire colpevoli per ciò che è accaduto”. Stefania è seduta davanti a me. Parla lentamente, scandendo le parole. “Se uno subisce un furto o un’aggressione a nessuno verrebbe in mente di evocare la corresponsabilità della vittima. Nel caso delle violenze sessuali invece sì. Soprattutto quando le vittime sono ex mogli, ex compagne o fidanzate dello stupratore di turno. Può sembrare incredibile, ma accade. Colpevoli di un reato orribile che non hanno commesso ma subito. C’è il difensore che tenta di farle sentire inadeguate. Chi insinua che sia stato il loro comportamento a scatenare gli istinti violenti del maschio. Aspettati domande del tipo: non è che se l’è cercata? O che ti dicano: se avesse fatto la brava moglie, se non avesse umiliato il suo compagno, se non fosse uscita a quell’ora, da sola. Cose così. Usate ad arte per alimentare la tensione. Per intimorire chi ha avuto il coraggio di denunciare. Tu non hai colpe, Mara, lo sai. Non ti devi vergognare di niente. Lui si deve vergognare per quello che ha fatto. E deve essere punito. Vai decisa e a testa alta domani al processo. Non farti irretire. Racconta i fatti, con calma e precisione. Vedrai, andrà bene”. 

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Il gran giorno è arrivato. Ieri sera ho portato Laura da mia madre. Ho dormito pochissimo stanotte. Mi sono svegliata agitata. Non trovavo le cose giuste per vestirmi. Non ho fatto colazione. Fuori dal tribunale c’erano già Stefania e il mio avvocato ad aspettarmi. Con altre donne e uomini del Centro antiviolenza. La loro presenza mi ha rincuorato. Non sarò sola là dentro. Abbiamo parlato un po’. L’avvocato mi ha dato consigli su come comportarmi durante l’interrogatorio. Poi siamo dovuti rimanere in attesa per un’ora fuori dall’aula, nel corridoio. Sono entrata che ero tesa ma determinata. Ho visto Davide nella gabbia degli imputati, semi nascosto da due carabinieri. Ho evitato di incrociarne lo sguardo. Ci sono stati dei conciliaboli tra il presidente e i legali che non ho capito. Poi sono stata invitata a sedermi davanti alla corte. 

Stefania aveva ragione. L’avvocato difensore di Davide ci ha provato. “Signora, è vero o no che lei ha deciso di troncare la relazione solo perché il mio assistito aveva rimproverato sua figlia?”. “Non l’ha rimproverata, l’ha picchiata. Più volte. E ha picchiato anche me. Più volte”. “La prego, risponda solo alle mie domande. È vero o no che all’improvviso, senza apparente motivo, lei ha troncato i rapporti sessuali col suo compagno?”. “Le botte per lei, avvocato, non sono un motivo apparente?”. “Le domande le faccio io. Lei ha un amante, signora?”. “Non ho nessun amante”. “È vero o no che ha cacciato brutalmente di casa l’imputato prendendogli le chiavi e mettendo fuori dalla porta le sue cose?”. “Lui è stato brutale con me, con la sua violenza. Io gli ho solo detto che doveva andarsene”. “Al parco, dove c’è stato il rapporto sessuale, lei ha provato solo disgusto, come ha messo a verbale, o anche piacere?”. “Sono stata stuprata, avvocato”. “Ha raggiunto l’orgasmo?”. “Sono stata stuprata”. 

Sono rimasta calma, nonostante le provocazioni del difensore. Quando stavo tornando al mio posto ho incrociato lo sguardo di Davide. Si teneva con tutte e due le mani alle sbarre, il volto infilato tra le braccia, rivolto verso me. Mi ha lanciato un’occhiata carica d’odio ma non ha detto niente. Poi i giudici hanno sentito la poliziotta, il medico e il mio anziano salvatore, a cui sarò eternamente grata. La sua testimonianza è stata decisiva. L’hanno condannato a otto anni per stupro e tentato omicidio. Quando il giudice ha letto la sentenza mi sono messa a piangere. Stefania e l’avvocato mi hanno abbracciata. Quelli del Centro antiviolenza hanno applaudito. Davide ha inveito ad alta voce: “Puttana, te la farò pagare”. I carabinieri l’hanno portato via. 

 

Parte 4 

 

La sentenza mi ha ridato fiducia. Davide è in carcere. Con Laura abbiamo ritrovato il sorriso. Ho ripreso a vivere. Gli uomini però li tengo alla larga. Niente storie, per ora. Sono così grata a Stefania che ho deciso di impegnarmi nel Centro antiviolenza. Racconto la mia esperienza. Aiuto altre ragazze stuprate. Ieri ho partecipato a una conferenza dove lei era relatrice. Ha illustrato gli ultimi dati sulle violenze di genere in Italia. Sono impressionanti. Un quarto degli omicidi totali sono femminicidi. Negli ultimi due anni sono state uccise 256 donne, più di una ogni tre giorni. Nei due terzi dei casi gli assassini sono italiani. Per più della metà partner o ex partner. Gli abusi sessuali denunciati negli ultimi cinque anni sono mezzo milione, quasi trecento al giorno. E le donne che denunciano sono una piccola minoranza. Stefania ha spiegato che l’ossessione maschile del possesso e la gelosia sono le prime cause del fenomeno. Che c’è un collegamento diretto tra l’aumento delle violenze e il dilagare della destra sovranista, che è anche sinonimo della volontà di supremazia maschile nelle relazioni tra i sessi, nella famiglia tradizionale, nella società. 

La tranquillità dura poco più di un anno e mezzo. In appello l’imputazione di tentato omicidio per Davide cade. La pena viene dimezzata. Con i benefici per buona condotta, tra due mesi uscirà. Quando l’avvocato mi convoca nel suo studio per darmi la notizia mi sento male. Una botta tremenda. Proprio ora che credevo di essere uscita dall’incubo. 

“Purtroppo non è tutto, signora”, infierisce. “In cella non si è affatto pentito. Si è scoperto che aveva commissionato il suo omicidio a un bulgaro che stava per tornare in libertà”. Balzo dalla sedia. “Assassino! Bastardo! Voleva finire il lavoro, quell’animale”. “Gli ha dato dei soldi, duemila euro. Ma l’uomo, una volta uscito, è andato dal magistrato a raccontare tutto”. “Quindi lo processeranno di nuovo. Lo terranno dentro”. “No, signora. Il giudice ha già esaminato la vicenda e preso una decisione. Ha stabilito che il suo ex non è punibile per questo. Il Codice Penale, all’articolo 115, prevede che le intenzioni criminali, se rimangono tali, non sono perseguibili. Anche se sono provate dalle intercettazioni, come in questo caso. Anche se si è scoperto che aveva già pagato il sicario”. “Ma non è possibile. Che giustizia è questa? È pazzesco”. “Purtroppo è così. È la legge”. 

Libero per buona condotta. Maledetti! Davide. Il giudice. La giustizia. Maledetti tutti. Libero e con la voglia di farmi fuori. La paura mi assale. Sono disperata. Ce l’ho col mondo. Piango. L’avvocato cerca di tranquillizzarmi. “La buona notizia è che quando uscirà dal carcere sarà in regime di libertà vigilata. Lo terranno d’occhio. Lui sa che se sgarra torna dentro, per un bel po’. In ogni caso a lei verrà assicurata una protezione adeguata”. Sì, tranquilla un cazzo. Quello mi ha stuprata. Voleva uccidermi. Ha commissionato il mio omicidio. Ci si spazza il culo con la libertà vigilata. E anche con la mia protezione. 

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Ieri Davide è tornato in libertà. Vive a pochi chilometri da me. Ho saputo che la libertà vigilata consiste nel dover firmare due volte al giorno un registro dai carabinieri. Durante il giorno è libero di muoversi come vuole. Potrà anche andare in vacanza. Il magistrato ci ha assegnato la scorta. Due carabinieri che accompagnano Laura a scuola e me al lavoro, andata e ritorno. E che sorvegliano a distanza la casa, di sera. Le nostre uscite sono limitate al minimo indispensabile. Vita sociale quasi inesistente. Tranquillità poca. I carabinieri sono gentili. Discreti e disponibili. Ma questa non è vita: è una galera. Lo stupratore libero e la vittima in prigione. Sono terrorizzata. Vivo con la costante paura di vederlo comparire. Di essere uccisa. E che lui possa fare del male a mia figlia. La notte non riesco a dormire. Soffro di attacchi d’ansia. E’ come vivere col cancro. E avere una figlia con una malattia rara, sempre in pericolo di vita. Aveva ragione Stefania. Da vittima a colpevole. 

Per fortuna che c’è il Centro antiviolenza. Continuo a frequentarlo. A impegnarmi più di prima a sostegno delle altre. Mi fa sentire viva, utile, meno sola. Lì si ascoltano storie terribili. Anche peggiori della mia. C’è una grande solidarietà. Ma anche tanta rabbia. Ci unisce la voglia di ribellarci a questo schifo. Alla violenza. Agli abusi sessuali. Alla cultura maschilista che ancora domina il mondo. Alla giustizia che non è giustizia. A questa società nemica delle donne. Non voglio arrendermi. Non accetto di essere la vittima colpevole. Ho incaricato l’avvocato di fare ricorso contro la scarcerazione di Davide. Il Centro ha deciso che mi sosterrà, anche economicamente. E che farà una campagna contro quella sentenza esemplare alla rovescia. 

Poi c’è Stefania, che non è più soltanto la psicologa del Centro. E’ diventata la mia migliore amica. La zattera a cui sto aggrappata. Da professionista mi aiuta a elaborare la violenza, l’ingiustizia. A venir fuori dall’abisso. Come donna mi incoraggia sempre ad andare avanti, ad affrontare a testa alta questa battaglia, la vita. Da amica mi sta vicina. Trasmette affetto. Consiglia strategie. Mi aiuta a cercare soluzioni. È soprattutto grazie a lei se non sono precipitata. Se non ho perso del tutto la fiducia nel futuro. 

“Non puoi più restare in quella casa. Almeno fino a quando la vicenda giudiziaria non sarà conclusa e la situazione stabilizzata”, dice. “Anche se sei sotto protezione, lì continuerai a convivere con l’ansia, la paura che possa accadere qualcosa. Non è sano. Né per te né per Laura. Se vuoi ti posso trovare un’alternativa. Un posto sicuro. Una casa famiglia. Con altre donne abusate e altri bambini. Un luogo dove tu e Laura potrete stare più tranquille. Vivere una vita quasi normale. Avere relazioni. Costruire amicizie. Andare a mangiare una pizza, al cinema, a teatro, a ballare. In compagnia”. 

 

Parte 5

 

Non è stato facile decidere. Fare quel passo. Rinunciare alla quotidianità. Alle abitudini sedimentate in anni di vita con mia figlia. Alla privacy. Ci ho pensato un giorno e una notte. Poi mi sono convinta. Ho lasciato la mia casa, il mio letto, il mio bagno, i libri, le piante, le cose che mi sono più care. I gatti li ho dovuti affidare a mia madre, non potevo portarli. Laura non l’ha presa bene. Ha pianto. Non voleva staccarsi da Pablo, il suo adorato micione che la notte le dorme accanto e le fa le fusa. Le ho promesso che potrà andare a dormire dalla nonna quando vuole. Che torneremo presto nella nostra casa, con Pablo e la Fuffy. Ora devo adeguarmi alla convivenza con altre donne, con altre famiglie dimezzate. No, non è facile. Ma è sempre meglio che vivere nel terrore. 

Sono passati altri due anni. Tra alti e bassi. L’inserimento nella piccola comunità è andato abbastanza bene. Laura un po’ si è ambientata. E anch’io. Ma non è come essere a casa. Le nostre vite sono state stravolte. Relazioni, consuetudini, il tran tran quotidiano, il parchetto sotto casa dove mia figlia andava a giocare, il bar dove facevo colazione. Tutto è cambiato. 

Sono diventata la responsabile del gruppo famiglia. Coordino l’attività della casa. Traggo energia dalle vite degli altri. Con un medico volontario del Centro è nata una simpatia. E’ un bell’uomo. Ho capito che gli piaccio. I suoi sguardi lasciano pochi dubbi. Vorrei ricambiarli. Incoraggiarlo a invitarmi a cena. Sono anni che non faccio l’amore. Avrei voglia di andarci a letto. Ma non ho ancora trovato il coraggio. Quell’incubo è ancora dentro di me. Ho chiesto a Stefania un altro ciclo di terapia. Lei viene di frequente a trovarci. E’ una presenza preziosa. Laura ha finito le medie, a settembre andrà al Liceo. Va spesso dalla nonna, a prendersi le fusa di Pablo. 

La campagna del Centro ha fatto molto rumore. Il mio caso è diventato emblematico. E’ finito sui giornali nazionali. Sono andata più volte in tivù a raccontare la mia storia. A sostenere la battaglia contro le violenze di genere. Ricevo molta solidarietà sui social. Alcuni parlamentari hanno firmato una proposta di legge per cambiare quella norma scandalosa del Codice Penale. Tutto questo clamore mi fa sentire più protetta, più sicura. Davide non l’ho più incontrato. L’avvocato mi ha detto che ha cambiato casa, lavoro, città. Secondo lui ha capito che qui non era più aria. “Ormai tutti sanno chi è. Sanno cosa ha fatto. Qualcuno l’ha minacciato. Se restava, rischiava di essere in pericolo più lui che lei e sua figlia”. Il magistrato la deve pensare allo stesso modo. Mi ha comunicato che il programma di sorveglianza verrà ridotto. Dal prossimo mese niente più scorta dei carabinieri. Solo controlli “discreti”, a distanza. A settembre torneremo a casa. L’ho promesso a Laura. A novembre ci sarà l’appello. Sono fiduciosa. Ma Davide è libero. Io ancora no. E ho una gran voglia di urlare. 

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