Stiamo pagando l'estate pazza all'insegna di vil denaro e interessi corporativi
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Stiamo pagando l'estate pazza all'insegna di vil denaro e interessi corporativi

Seconda ondata che il governo ha contrastato in modo incerto, prima rinviando ogni intervento, poi con un decreto che era acqua fresca e ora con un semi lockdown pieno di contraddizioni

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Claudio Visani Modifica articolo

27 Ottobre 2020 - 15.15


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Siamo stati il primo paese Occidentale a subire l’onda tremenda della pandemia. Abbiamo visto i nostri vecchi spegnersi nel modo più orribile, soffocati, isolati dagli affetti, senza nemmeno il conforto di una carezza, e le file dei camion militari con centinaia di bare e di corpi a cui non sono stati concessi nemmeno funerali e sepolture. Molti di noi hanno avuto amici e parenti ricoverati nelle terapie intensive, hanno vissuto l’angoscia di quelle settimane, ascoltato i racconti di quelli che ne sono usciti vivi, osservato i cambiamenti profondi che quell’esperienza allucinante ha prodotto nei loro sguardi. Molti altri hanno da sette-otto mesi genitori o nonni reclusi nelle case di riposo che non possono abbracciare, che sono costretti a visitare a distanza o a contattare con penose videochiamate. Altri ancora sono medici e infermieri che erano al fronte, dall’altra parte della barricata, e che abbiamo chiamato eroi.
La pandemia ci ha colti di sorpresa, ci ha trovati impreparati, ci ha fatto scoprire tutti i guai che questo capitalismo al tramonto e una pessima classe politica e dirigente hanno provocato nell’ultimo quarto di secolo ai fondamentali del nostro Paese con i tagli alla sanità, al welfare, alla scuola, ai trasporti, alla ricerca, all’innovazione tecnologica e anche alla produzione di beni essenziali (vedi mascherine e reagenti). All’inizio abbiamo fatto molti sbagli. In particolare non abbiamo chiuso quando si doveva la Lombardia, che era ed è ancora oggi la principale fonte di diffusione del Covid, e abbiamo invece chiuso tutta l’Italia, con le regioni del Centro-Sud e le isole dove il virus ancora non c’era. Ma tutto sommato abbiamo reagito bene. Abbiamo avuto un Capo dello Stato che ha tenuto come sempre la barra dritta. Un premier che non ha perso la tresibonda e si è affidato alle indicazioni della comunità scientifica, che pure non è stata univoca e sempre convincente. Un popolo che ha rispettato in modo rigoroso e con inaspettato senso civico il duro lockdown di marzo-aprile, che pure ha impoverito il Paese e duramente colpito gli strati più fragili della società. Un ministro della Sanità che ha dimostrato di battersi con coraggio e fermezza per la difesa della salute. Un ministro dell’economia, un presidente e un commissario Ue che ci hanno riportati in quell’Europa da cui la destra ci voleva fare uscire e che oggi rappresenta la nostra ancora di salvezza.
Per tutti questi motivi siamo usciti piegati ma ancora in piedi dalla prima ondata, maturando un vantaggio notevole sugli agli altri paesi europei. Se nei mesi scorsi avessimo tenuto ancora dritta la barra, lavorando per rafforzare i nostri fondamentali (la sanità territoriale, la capacità di tracciamento, il trasporto pubblico, la scuola) e riaprendo con giudizio le attività che si potevano riaprire in sicurezza, i confini e gli spostamenti nazionali e regionali, probabilmente quel vantaggio l’avremmo mantenuto e oggi potremmo avere maggiori possibilità di altri di rialzarci, quando la bufera sarà passata. Invece con la nostra estate pazza quel vantaggio l’abbiamo gettato alle ortiche. Il vil denaro, gli interessi economici e corporativi, una maggioranza con qualche guastatore e dilettante di troppo e mai coesa, una opposizione che più irresponsabile non si può (oggi come nella prima fase) e regioni mai o quasi mai all’altezza della sfida, hanno portato al disastro del liberi tutti vacanziero che sta alla radice di questa nuova drammatica emergenza.
Una seconda ondata che il governo ha finora contrastato in modo incerto, prima rinviando ogni intervento, poi con un decreto che era acqua fresca per il contenimento del virus, e ora con un semi lockdown pieno di contraddizioni. Cinema e teatri chiusi, centri commerciali aperti. Palestre e sport amatoriali no, calcio e gran premi dei ricchi sì. Intanto il virus si sta prendendo le metropoli, le capacità di tracciamento sono ormai saltate, gli ospedali tornano a riempirsi, le proiezioni dei matematici disegnano scenari terrificanti in cui le terapie intensive dovranno nuovamente scegliere, a breve, chi salvare e chi no.
Consola assai poco vedere che altrove, in Europa, c’è chi sta peggio di noi. O che negli Stati Uniti, sotto la guida demenziale di Trump, è già stata alzata la bandiera bianca dichiarando la pandemia fuori controllo. Se abbiamo ancora una possibilità di sfangarla nell’attesa messianica del vaccino, essa dipende dalla tempestività ed efficacia delle misure di contenimento che solo una guida politica salda può decidere. Quelle prese non sembrano sufficienti. Se si vuole evitare di finire in un nuovo lockdown generalizzato, che il Paese non reggerebbe, bisognerà probabilmente prenderne altre. E dovranno essere misure coraggiose. Probabilmente chiusure nelle metropoli dove il virus ormai corre liberamente e incontrastato (Milano, Napoli, Genova, forse Roma). Comunque chirurgiche, mirate a intervenire laddove ci sono le evidenze scientifiche della maggiore diffusione. Non chiudendo la didattica in presenza, la cultura, i ristoranti, le palestre e le attività che si sono adeguate e rispettano le normative anti-Covid, perché non si riesce a organizzare meglio il trasporto pubblico e gli orari.

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La protesta che ieri abbiamo visto accendersi nelle principali città non può essere attribuita solo a fascisti, antagonisti, ultras e camorristi vari. C’è un disagio più profondo che sale dal Paese, frutto certo degli effetti economici intrinseci della pandemia ma anche della ribellione a certe misure assai discutibili dell’ultimo decreto.

La protesta, quella pacifica, va ascoltata. Bisogna ragionarci su e correggere quel che c’è da correggere. Perché non passi il messaggio che ieri sera qualcuno ha scritto su un muro a Bologna: “Producete, consumate, pregate”.

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