L'alto ufficiale: "Pescatori abbandonati in mare alla mercé dei libici. Dov'era la marina militare?"

La vergogna dell'equipaggio sequestrato e portato a Bengasi nello sfogo di un altissimo ufficiale che ha parlato chiedendo l'anominato.

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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

20 Settembre 2020 - 15.09


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Chiede di non essere citato. E non per “codardia”, parola che non esiste nel vocabolario di chi ha trascorso una vita in prima linea. Chiede di non essere citato perché “non riuscirei a trattenermi, a contenere la rabbia e l’indignazione per ciò che stiamo subendo in Libia. I nostri connazionali, i pescatori di Mazara del Vallo, sono stati sequestrati da pirati, perché tali sono, che si spacciano per militari. Non mi sono mai sottratto alle mie responsabilità, ho sempre parlato a viso aperto, assumendomene tutte le responsabilità. Ma questo prendilo come uno sfogo…”.

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Onore, per chi ha indossato per una vita la divisa e ricoperto incarichi di comando apicali, non è una parola vuota, retorica. E ‘ un codice di comportamento. “ Da tre anni – dice a Globalist – centocinquanta persone operano nell’ospedale da campo aperto a Misurata dai nostri soldati. In quell’ospedale sono stati curati centinaia di feriti che altrimenti erano destinati a morire. Nessuno ha chiesto loro se stavano con Sarraj o Haftar, erano persone che andavano soccorse. Molte di queste persone, quelle più gravi, sono state curate nell’ospedale militare del Celio, a Roma. Non è possibile, non è accettabile che non vi sia un minimo di riconoscenza”.

Dov’è la nostra marina militare?

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E’ uno sfogo, certo. Ma va colto in tutta la sua potenza, perché riflette un sentire diffuso tra quanti, donne e uomini in divisa, operano in Libia e nel Mediterraneo. “Ho sempre ritenuto – dice il nostro interlocutore – quello militare uno strumento e mai un fine. Non ho mai creduto che la stabilizzazione di un Paese possa avvenire con la forza, senza una strategia politica alla quale lo strumento militare deve subordinarsi.  Ma a volte questo strumento va utilizzato, messo in campo, quanto meno come deterrente. L’Italia non può sottostare al ricatto di questi delinquenti travestiti da militari. So bene che esiste da tempo un contenzioso aperto tra Italia e Libia su dove finiscono le acque internazionali e dove iniziano quelle libiche. Ma questo non giustifica in alcun modo il sequestro dei due motopesca di Mazara del Vallo e dei loro equipaggi. Questo è un atto di banditismo al quale non si deve soggiacere.” Non si tratta di fare la guerra, ma di dimostrare che l’Italia non abbandona i suoi connazionali. “Il segnale deve venire dal governo – rimarca la nostra fonte – che deve mostrare di avere schiena diritta.  Non si tratta solo di liberare i nostri connazionali ma anche evitare che episodi del genere si ripetano. In che modo? Delle due, l’una: o si decide che pescare in quelle acque è pericoloso, e allora lo si deve proibire, sostenendo economicamente pescatori e armatori, oppure quelle imbarcazioni vanno accompagnate, protette, usando la nostra marina militare”.

Ma ciò non avviene. E così il Mare nostrum è un mare dove si ha paura, sì paura, di intervenire per non dovere incrociare i boat people di migranti e doverli salvare e accogliere.

Nel frattempo il ministro degli Esteri Luigi Di Maio ha sentito le famiglie dell’equipaggio dei pescherecci sequestrati in Libia, il sindaco di Mazara del Vallo e gli armatori, ai quali ha assicurato il massimo impegno del governo per una risoluzione positiva della vicenda.

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Ma i familiari cercano risposte immediate e celeri dall’esecutivo romano. “Il governo promette? Ma al momento cosa ha fatto? Noi siamo stanchi delle parole. Faremo di tutto per riportare i nostri parenti a casa. Ci sentiamo abbandonati. Proprio per questo andremo a Roma“, afferma Rosaria Giacalone moglie del direttore di macchina del peschereccio Medinea.

Ha le lacrime agli occhi Rosetta Ingargiola, la mamma del comandante della Medinea. “Non è giusto. Siamo stanchi, abbiamo bisogno di aiuto. I nostri familiari stanno perdendo la salute in Libia e di conseguenza noi la stiamo perdendo qui ad aspettare delle certezze che non arrivano“.

“Devono avere pazienza”, afferma  Domenico Asaro, un pescatore siciliano che nel 1996 è stato incarcerato con il suo equipaggio per sei mesi a Misurata. ”Ho perso quasi 22 kg durante la mia detenzione. Devi sperare che l’accordo venga risolto il prima possibile. Tuttavia, se, purtroppo, la questione dovesse diventare politica, allora tutto ciò che possiamo fare è pregare “.

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Un alto ufficiale dell’autoproclamato Esercito nazionale libico (Lna), generale Khaled al Mahjoub, ha dichiarato che i pescatori italiani trattenuti dal primo settembre scorso a Bengasi, il capoluogo della Cirenaica sotto il controllo di Khalifa Haftar, sono attualmente indagati dalla Procura. In una dichiarazione ad Agenzia Nova, Al Mahjoub ha affermato che la principale accusa contro i pescatori è di essere entrati senza autorizzazione nella zona di pesca esclusiva libica (dichiarata unilateralmente a partire dal 2005 fino a 74 miglia dalla propria costa, atto in contrasto con le norme che regolano il diritto del mare e mai riconosciuta da paesi terzi). L’intercettazione, il sequestro e la detenzione dei pescherecci stranieri e dei loro equipaggi da parte delle autorità libiche e delle milizie locali è frequente, ma generalmente si risolve nel giro di pochi giorni. Rispondendo a una domanda sull’accusa di presunto possesso di materiali proibiti che potrebbe essere diretta ai pescatori, Al Mahjoub ha aggiunto che qualsiasi altro capo d’imputazione sarà reso noto dalla magistratura non appena le indagini delle autorità competenti saranno terminate, incluso l’esame di quanto rinvenuto a bordo dei pescherecci.

Due circostanze rendono il caso inusuale: la tempistica e le richieste per il rilascio. Il fermo è avvenuto nel giorno della quarta visita in dieci mesi del ministro degli Esteri Luigi Di Maio in Libia: il titolare della Farnesina si è recato sia a Tripoli che a Qubba, roccaforte del presidente del parlamento di Tobruk, Aguila Saleh, ma non dal generale Haftar. In seconda istanza, da Bengasi chiedono la liberazione di calciatori libici condannati in Italia con l’infamante accusa di traffico di esseri umani. Al livello ufficiale, l’Italia non può protestare con il governo libico “ad interim” dell’est, il braccio politico di Haftar, perché non lo riconosce. Tra l’altro, la sera del 13 settembre, il primo ministro “orientale” in carica dal 2014, Abdullah al Thinni, ha presentato le sue dimissioni dopo le proteste tenute nell’est della Libia contro il suo governo per la mancanza di servizi. L’unico canale ufficiale possibile in Libia per la liberazione dei pescatori è al momento il parlamento di Tobruk presieduto da Saleh, che però è in rotta di collisione con Haftar. L’Italia ha fatto di più, contattando i “padrini” internazionali di Haftar:  Di Maio ha discusso della questione con i colleghi Emirati Arabi Uniti e Russia, rispettivamente Abdullah bin Zayed al Nahyan e Sergej Lavrov.

Quello compiuto dagli uomini di Haftar è “un sequestro che sa di ricatto. Non possiamo permetterci di farci ricattare dalle milizie libiche in conflitto tra loro”, afferma in una nota il deputato di LeU (Liberi e uguali) Erasmo Palazzotto.  “Si faccia tutto il possibile per far tornare in tempi rapidi i nostri pescatori a Mazara del Vallo, dalle loro famiglie. E si affermi la dignità e la credibilità del nostro Paese nel Mediterraneo”, sottolinea Palazzotto

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In merito alla vicenda è intervenuto anche il vescovo della Diocesi di Mazara, Mons. Domenico Mogavero: “Non è più tollerabile questa situazione – sostiene con toni molto duri il prelato – che è fondata su una palese violazione del diritto internazionale e della navigazione; i pescatori mazaresi, senza la protezione del governo, pagano le spese in quanto categoria debole e indifesa. Il Mediterraneo una volta spazio di incontro e scambio fra i popoli è diventato un teatro di guerra, questo è intollerabile per la nostra storia, per il presente e per il futuro”.

Navi umanitarie bloccate

Intanto, un nuovo naufragio di una nave di migranti al largo delle coste libiche è stato denunciato dalla Ong tedesca Sea Watch. 

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Secondo alcune testimonianze –  che risalgono a ieri sera – decine di persone sarebbero rimaste aggrappate ai resti del barcone senza alcun aiuto.   La Sea Watch accusa la Guardia costiera italiana di impedire con pretesti burocratici la partenza delle navi soccorso delle Ong.  Sono già cinque le navi umanitarie bloccate negli ultimi mesi: “Ci impediscono di salvare vite in mare ” hanno detto i portavoce dell’organizzazione umanitaria.  

E Roma tace. Mentre le nostre navi militari sono ferme in porto, in attesa di ordini. Che non arrivano mai.

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