L'Istat fotografa l'Italia del post Covid: l'ascensore sociale ora scende

Covid accentua i divari, colpiti di più poveri e meno istruiti. La pandemia fa paura, la natalità scenderà ancora

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3 Luglio 2020 - 09.40


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Per descrivere con un’immagine la situazione italiana, l’Istat spiega che per l’ascensore sociale in Italia è molto più probabile scendere che salire. Una cosa mai accaduta prima. È quanto emerge dal Rapporto annuale 2020.  Disuguaglianze “significative” solcano il nostro Paese. E il Covid rischia di accentuarle, allargando i divari esistenti, con una ‘scala sociale’ nella quale è più facile scendere che salire. Il mercato del lavoro si restringe – il 12% delle imprese pensa di tagliare – proprio per le fasce più deboli, giovani e donne. La didattica a distanza vede in svantaggio bambini e ragazzi del Mezzogiorno che vivono in famiglie con un basso livello di istruzione. La natalità potrebbe scendere ancora, eppure gli italiani i figli li desiderano, due l’ideale. Ma l’Istat sottolinea anche come il Paese abbia reagito. “Il segno distintivo” nel lockdown è stato di “forte coesione”. L’Istituto invita a guardare alla criticità strutturali del Paese come “leve della ripresa”. 

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Covid ha colpito di più poveri e meno istruiti. “L’epidemia ha colpito maggiormente le persone più vulnerabili, acuendo al contempo le significative disuguaglianze che affliggono il nostro paese, come testimoniano i differenziali sociali riscontrabili nell’eccesso di mortalità causato dal covid-19. Sono infatti le persone con titolo di studio più basso a sperimentare livelli di mortalità più elevati” si legge nel rapporto annuale 2020 dell’Istat. “Nel marzo 2020 e, in particolare, nelle aree ad alta diffusione dell’epidemia, oltre a un generalizzato aumento della mortalità totale, si osservano maggiori incrementi dei tassi di mortalità, in termini tanto di variazione assoluta quanto relativa, nelle fasce di popolazione più svantaggiate, quelle che già sperimentavano, anche prima della epidemia, i livelli di mortalità più elevati. Uno scarso livello di istruzione, povertà, disoccupazione e lavori precari influiscono negativamente sulla salute e sono correlati al rischio di insorgenza di molte malattie (ad esempio quelle cardiovascolari, il diabete, le malattie croniche delle basse vie respiratorie e alcuni tumori), che potrebbero aumentare il rischio di contrarre il covid e il relativo rischio di morte”. L’istat spiega che “le persone con un basso livello di istruzione presentano un livello di mortalità sempre più elevato”. L’epidemia “ha dunque acuito le diseguaglianze preesistenti, con un maggiore impatto sulle persone con basso titolo di studio, non necessariamente anziane. A questo proposito, merita particolare attenzione il caso delle donne di 35-64 anni meno istruite, presso le quali si osserva un aumento del 28 per cento del ‘rm’ rispetto alle altre”, ossia del rapporto standardizzato di mortalità che misura l’eccesso di morte dei meno istruiti rispetto ai più istruiti.

Un downgrading di massa. La “classe” di origine influisce meno sulla collocazione sociale che si raggiunge all’età di 30 anni rispetto al passato, ma pesa ancora in misura rilevante. Per l’ultima generazione (1972-1986), la probabilità di accedere a posizioni più vantaggiose invece che salire è scesa. Il 26,6% dei figli rischia un ‘downgrading’ rispetto ai genitori. Una percentuale, praticamente più di 1 su 4, superiore rispetto alle generazioni precedenti. E anche più alta di quella in salita (24,9%). Cosa che non era mai accaduta prima.

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Ripresa nel secondo semestre. Il Pil “dopo una flessione ulteriore nel secondo trimestre” si prevede che possa registrare “un aumento nel secondo semestre dell’anno”. L’Istituto di statistica ricorda che la prospettiva per la media del 2020 è di una caduta del Prodotto interno lordo dell′8,3%. “Il percorso di ripresa è previsto rafforzarsi nella parte finale dell’anno, producendo un effetto di trascinamento positivo sui risultati del 2021 che, in media d’anno, segnerebbero un ritorno a una crescita significativa del Pil (+4,6%)”.

Ondata di licenziamenti. “Il problema del reperimento della liquidità è molto diffuso, i contraccolpi sugli investimenti, segnalati da una impresa su otto, rischiano di costituire un ulteriore freno ed è anche preoccupante che il 12% delle imprese sia propensa a ridurre l’input di lavoro” scrive l’Istat, in base a un’indagine condotta a maggio. Tuttavia “si intravedono fattori di reazione positiva e di trasformazione strutturale in una componente non marginale del sistema produttivo”. Dai dati provvisori sulle forze di lavoro emerge inoltre che i lavoratori in Cig ad aprile – nella settimana di intervista – sono stati quasi 3,5 milioni. E, sempre ad aprile, quasi un terzo degli occupati (7,9 milioni) non ha lavorato. Cresciuti anche i lavoratori in ferie. 

Si stima che a fine aprile quasi due terzi delle circa 800mila società di capitale italiane avessero liquidità sufficiente a operare almeno fino a fine 2020 mentre oltre un terzo sarebbe risultato illiquido o in condizioni di liquidità precarie”. 

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Lavori antisociali anche per le donne. “Tra le donne è alta, anche se non
maggioritaria, la diffusione dei cosiddetti orari antisociali: serali, notturni, nel fine settimana, turni. Con tutto ciò che ne consegue in termini di qualità del lavoro e la conciliazione con la vita privata”. Nel Rapporto annuale, l’Istat scrive che “più di due milioni e mezzo di occupati, di cui 767mila donne, dichiarano infatti di lavorare di notte; quasi cinque milioni, di cui 2 milioni donne, prestano servizio la domenica; e oltre 3,8 milioni, 1 milione e 600mila donne, sono soggetti a turni”.

Un milione di famiglie vive di lavoro irregolare. “Nella difficile situazione economica generata dalle misure di contrasto alla pandemia, la presenza di una consistente porzione di occupazione non regolare rappresenta un ulteriore fattore di fragilità per un numero elevato di famiglie”. L’Istat scrive che “nella media del triennio 2015-2017 circa 2,1 milioni di famiglie (per oltre 6 milioni di individui) hanno almeno un occupato irregolare; la metà, poco più di un milione, ha – sottolinea – esclusivamente occupati non regolari”.

Paura del Covid, meno figli. “La rapida caduta della natalità potrebbe subire un’ulteriore accelerazione nel periodo post-Covid”. L’Istat spiega che “recenti simulazioni, che tengono conto del clima di incertezza e paura associato alla pandemia in atto, mettono in luce un suo primo effetto nell’immediato futuro; un calo che dovrebbe mantenersi nell’ordine di poco meno di 10mila nati, ripartiti per un terzo nel 2020 e per due terzi nel 2021″. E La prospettiva peggiora se si tiene conto dello shock sull’occupazione. I nati scenderebbero a circa 426mila nel bilancio finale del corrente anno, per poi ridursi a 396mila, nel caso più sfavorevole, in quello del 2021″.

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Il sogno? Una famiglia con due figli. “A fronte di una fecondità reale in
costante calo dal 2010 e che ci riporta agli stessi livelli di 15 anni fa, il numero di figli desiderato resta sempre fermo a due, evidenziando un significativo scarto tra quanto si desidera e quanto si riesce a realizzare”. L’Istat rileva che “sono solo 500 mila gli individui tra i 18 e i 49 anni che affermano che fare figli non rientra nel proprio progetto di vita: una componente tutto sommato marginale e che include, nella metà dei casi, persone che hanno superato i 40 anni e che prendono atto delle difficoltà di avere figli in età avanzata. Altri 2 milioni 200 mila (più della metà ha superato i 40 anni) non ha figli e non intende averne per ragioni di età o perché non ha un partner, o per problemi di salute. Per circa la metà delle persone che non hanno figli e non intendono averne le motivazioni addotte evidenziano più che una scelta una sorta di rassegnazione a fronte di oggettive difficoltà”. Ben il 46 per cento degli italiani “desidera avere due figli.
Il 21,9% tre o più. Solo il 5,5% ne desidera uno”.

Si fa presto a dire Dad. “L’Italia presenta livelli di scolarizzazione tra i più bassi dell’Unione europea, anche con riferimento alle classi di età più giovani”. Quanto all’impatto del Covid, l’Istat sottolinea che “il 45,4% degli studenti di 6-17 anni (pari a 3 milioni 100mila) ha difficoltà nella didattica a distanza per la carenza di strumenti informatici in famiglia, che risultano assenti o da condividere con altri fratelli o comunque in numero inferiore al necessario”.

 

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