Si chiamava Adnan Siddique ed è stato ucciso in Sicilia perché si opponeva al caporalato

Qualche mese fa, Adnan aveva accompagnato un suo connazionale a denunciare un mancato pagamento e da allora aveva ricevuto minacce

Adnan Siddique
Adnan Siddique
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7 Giugno 2020 - 16.07


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Adnan Siddique era arrivato in Italia dal Pakistan 5 anni fa con la speranza di costruirsi un futuro migliore. A Lahore, metropoli pakistana di 11 mila abitanti, viveva con il padre e la madre e altri 9 fratelli. Una famiglia povera che riponeva in Adnan tante aspettative. A Caltanissetta, dove si era stabilito, lavorava come muratore. Aveva 32 anni. Aveva, perché Siddique è stato ucciso tre notti fa, il 3 giugno, a coltellate. La sua colpa era stata quella di aver preso le difese di un gruppo di braccianti connazionali vittime del caporalato. Qualche mese fa aveva accompagnato un bracciante a sporgere denuncia per non essere stato pagato e da allora aveva continuato a ricevere minacce, tutte denunciate. Finché non è stato ucciso. 
Ieri è stata eseguita dal medico legale Cataldo Raffino l’autopsia sul cadavere. Cinque i fendenti: due alle gambe, uno alla schiena, alla spalla e al costato. Quest’ultimo è risultato quello fatale. Trovata poche ore dopo il delitto, dai carabinieri anche l’arma utilizzata, un coltello di circa 30 centimetri. Il gip Gigi Omar Modica ha interrogato ieri i quattro fermati per l’omicidio: Muhammad Shoaib, 27 anni, Alì Shujaat, 32 anni, Muhammed Bilal, 21 anni, e Imrad Muhammad Cheema, 40 anni e il connazionale Muhammad Mehdi, 48 anni, arrestato per favoreggiamento. Sta prendendo piede l’ipotesi che gli aggressori operassero una mediazione, per procacciare manodopera nel settore agricolo, tra datori di lavoro e connazionali.
A parlare di Adnan sono sono i proprietari del Bar Lumiere, che erano diventati suoi amici: Giampiero Di Giugno, la moglie Piera e il figlio Erik. Lo avevano invitato a pranzo tante volte e Adnan aveva raccontato dei suoi sogni ma anche delle sue preoccupazioni per via di un gruppo di connazionali che lo tormentavano. “Una volta è stato pure in ospedale – racconta la famiglia Di Giugno – lo avevano picchiato”. Jaral Shehryar, pakistano di 32 anni, titolare di una bancarella di frutta e verdura, conferma. “Era bravissimo, gentile – afferma – quelli che lo hanno ucciso no. Si ubriacavano spesso. Qualche volta andavano a lavorare nelle campagne ma poi passavano il tempo ad ubriacarsi e fare baldoria”. Adnan si era confidato con il cugino, che vive in Pakistan. “Aveva difeso una persona e lo minacciavano per questo motivo – riferisce Ahmed Raheel – Voleva tornare in Pakistan per la prima volta dopo tanti anni per una breve vacanza ma non lo rivedremo mai più. Adesso non sappiamo neanche come fare tornare la salma in Pakistan. Noi siamo gente povera, chiediamo solo che venga fatta giustizia”.

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