I nodi al pettine tra sanità pubblica e cittadini
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I nodi al pettine tra sanità pubblica e cittadini

L’emergenza fa emergere temi decisivi. Per esempio con gli emarginati. E la centralità del lavoro di “cura”

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14 Marzo 2020 - 18.09


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Il Coronavirus sta facendo venire al pettine alcuni nodi, alcuni aspetti della relazione fra cittadino e istituzioni che vengono a volte rimossi. Ne vorremmo mettere in rilievo solo tre, scelti con arbitrio un po’ idiosincratico fra i molto temi dibattuti fra soggetti più o meno “in quarantena”.
Non c’è ora una vera cura
Allo stato delle cose non c’è una vera cura: si possono solo mettere in atto strategie di contenimento, assistendo i malati nel decorso, in genere fausto ma con dolorose eccezioni, della malattia. Il contenimento, per i non addetti ai lavori, si basa su tre punti: isolamento degli infetti o dei potenziali infetti; controllo, col cosiddetto tampone, dei potenziali infetti (che possono a loro volta infettare); pratiche sanitarie come il lavarsi le mani, non toccarsi, mantenere distanze, non frequentare luoghi affollati, “stare a casa”.
La cosa interessante è che le pratiche sanitarie non servono solo a non ammalarsi, servono anche e soprattutto a non propagare il virus: chiunque non abbia avuto un referto negativo al tampone potrebbe essere un positivo asintomatico pronto a contaminare involontariamente altre persone.
Ci si chiede allora in primo luogo: in una sanità privatizzata per via di assicurazione, chi sottopone a screening (tampone) i non assicurati? E con quali risorse finanziarie? Il cinismo un po’ cheap che invita al realismo disincantato (“è normale che siano i ricchi e i benestanti ad accedere alle cure migliori”) questa volta non funziona: il “povero” non assicurato non verrà sottoposto a screening, è vero, ma questo fatto impedirà un più efficace contenimento del virus, mettendo a rischio anche i ricchi assicurati. Il virus ci ricorda che no man is an island, e che, per dirne una, una robusta sanità pubblica non è “buonismo”, ma un’istituzione irrinunciabile.
Sanzionare gli umiliati ed emarginati?
Un altro problema è costituito dalle pratiche sanitarie. È senz’altro giusto sanzionare gravemente chi trasgredisce i decreti e le ordinanze tesi alla salvaguardia della salute pubblica. Vale tuttavia la pena chiedersi: che civismo in tema di pratiche sanitarie ci si può legittimamente aspettare da chi è di fatto escluso da ogni aspettativa di benessere? Si può sanzionare con draconiana severità un assembramento di giovani nostalgici della movida, ma il contenimento del virus sembra avere bisogno di una cura dei dettagli, come il lavarsi spesso le mani, una cura che sembra presupporre l’interiorizzazione della norma e della sua ratio.
Gli umiliati e offesi, gli emarginati che non hanno aspettativa di benessere alcuna, non sono soggetti dai quali ha senso aspettarsi un comportamento impeccabile in tema di pratiche sanitarie, quelle pratiche che soltanto possono proteggerli dall’infezione. Ma l’infettarsi di costoro significa anche il propagarsi dell’infezione in generale. Il virus ci ricorda che le sanzioni (pur necessarie) non bastano, e che occorre virtù civile: virtù che può mancare a chi si sente escluso e discriminato. Il prezzo delle discriminazioni sembra salire in modo sproporzionato nelle circostanze di emergenza.
La cura in senso ampio è centrale
Un terzo e ultimo aspetto che vorremmo mettere in luce è la centralità del lavoro di cura. Non solo cura come terapia, come cure, ma cura come attenzione, come curarsi di, come care. Ci sono lavori che non vengono bene on-line. Medici di base e guardie mediche, operatori sanitari, infermieri, ma anche agenti di polizia e forze dell’ordine, sono figure professionali che non possono ricorrere troppo agevolmente al lavoro a distanza, allo schermo di un laptop collegato wireless dal soggiorno della propria dimora. L’emergenza sanitaria del corona virus mostra come queste figure professionali siano sottovalutate, e come invece il lavoro di cura, come aveva intuito la Ethics of Care, rappresenta qualcosa di dotato di un importante valore sociale, meritevole di riconoscimento istituzionale (e quindi anche economico).

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