L'assalto al pronto soccorso è segno di una sfida allo Stato da respingere con forza

La morte del ragazzino ucciso dal carabiniere che tentata di rapinare è una sconfitta per la società e un dramma. Ma la reazione degli pseudocamorristi è inaccettabile

Pronto soccorso assaltato a Napoli
Pronto soccorso assaltato a Napoli
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Diego Minuti Modifica articolo

2 Marzo 2020 - 16.06


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La morte di un ragazzino (uso questa definizione solo legandomi all’età anagrafica) come epilogo di un tentativo di rapina, a Napoli, è di per sé dramma quale che ne siano state le motivazioni e l’esatta sequenza dell’accaduto, ma è anche una sconfitta per la società, non tanto per come è accaduta, ma perché a molti sembra sfuggire la vera essenza sociologica dell’episodio.
Un ragazzo di quindici anni che si arma di una pistola (che fosse una riproduzione poco sposta nella formazione del giudizio) e, insieme ad un suo giovanissimo complice, va a caccia di qualcuno da rapinare è l’immagine di un degrado che difficilmente però può essere addotto a scusante o, peggio, ad attenuante. 
Perché Ugo Russo (questo il nome del ragazzino) ha mutuato dalla ormai torrenziale letteratura, anche filmica, sulla criminalità partenopea mosse e comportamenti che si addicono a delinquenti di collaudata esperienza piuttosto che a giovanissimi che vanno a caccia di facili, ancorché illeciti fonti di guadagno.
In questi casi – ma credo che la magistratura debba comportarsi sempre così, anche quando le ricostruzioni di eventi delittuosi appaiono inequivocabili – spetta al pubblico ministero appurare per primo l’esatta dinamica di quanto è accaduto, al di là di quel che dicono le parti (il carabiniere e i familiari della vittima)  senza cadere nella trappola di dare troppo ascolto allo scatenarsi di reazioni, anche scomposte, di cui a fare le spese è l’opera di accertamento della verità.
Il padre del giovanissimo rapinatore dice che il figlio – sul cui comportamento fa calare, in modo umanamente comprensibile, una pioggia salvifica mossa dall’amore, quasi tacendo delle circostanze – è stato assassinato praticamente a sangue freddo.
Di certo – lo conferma anche il complice di Ugo – il ragazzo voleva rapinare il carabiniere; di certo era in possesso di una riproduzione di una pistola semiautomatica perfettamente eguale all’originale e, di conseguenza, che ha ingannato il militare; di certo la giovanissima vittima è morta per almeno due colpi di arma da fuoco corta; di certo un proiettile ha raggiunto il torace dell’aspirante rapinatore, un secondo la testa. 
Il padre di Ugo ora dice che il carabiniere di sentiva ”Rambo” e che, cosa gravissima, ha sparato alla testa del figlio quando il ragazzo era già a terra. Una ricostruzione – da colpo di grazia e non da difesa – che sarà confermata o smentita dall’esame autoptico che accerterà innanzitutto l’angolazione della traiettoria dei due proiettili, definendo quindi le posizioni della vittima e dello sparatore. 
Occorre di conseguenza aspettare l’esito dell’autopsia e le conclusioni dell’anatomopatologo e solo allora il pm potrà procedere con le sue determinazioni. Punto.
Ma la tragedia di un ragazzino – di cui non conosciamo l’ambiente familiare e se in esso si possano individuare sintomi di degrado sociale – non deve in qualche modo giustificare quanto è accaduto dopo, e non parlo solo della devastazione che un gruppo di ”amici” di Ugo ha compiuto nel Pronto soccorso dell’ospedale dove lui era giunto morente. Questi sedicenti ”vendicatori” hanno colpito chi credevano responsabili della morte di Ugo non fermandosi nemmeno davanti al terrore dei ricoverati, alcuni dei quali in condizioni gravi e che attendevano d’essere trasferiti in reparto. Non conosciamo ancora l’ammontare dei danni, ma di certo sono poca cosa rispetto all’esecrazione che la società civile napoletana deve nutrire verso chi ha scatenato la sua rabbia (ingiustificata) contro chi quotidianamente si batte solo per salvare vite e non certo, per come forse le menti folli degli assalitori hanno elaborato, per spegnerne.
L’episodio più grave, però, a mio avviso è la sparatoria a pochi metri dal portone della caserma dei carabinieri, davanti alla quale degli pseudocamorristi sono sfrecciati a bordo di scooter quasi sfidando i militari. 
Una scena che, profeticamente, era stata parte di uno degli episodi dello sceneggiato  ”Gomorra”. 
Cosa hanno voluto affermare questi emuli in sedicesimo di eroi negativi nati dalla penna di sceneggiatori?
Che sono pronti alla vendetta? 
Che non temono la reazione dei carabinieri? 
Che sono loro, e non lo Stato, i padroni delle vie di Napoli?
Non conosciamo la risposta e se qualcuno ne ha altre da suggerire siamo pronti ad accoglierle. Ma quel che pare evidente è che – al di là dell’inchiesta sulla morte di Ugo Russo – lo Stato, nelle sue varie articolazioni, non si può esimere dal reagire con immediatezza e determinazione, con gli strumenti della legge, che sono tanti e anche potenzialmente duri.
Quel che certo è che chi ha assaltato, devastandolo, il Pronto soccorso di un ospedale per un criminale senso di fratellanza con un aspirante rapinatore non può avere come attenuante il legame con la vittima, né tanto meno la giovanissima età (che pare l’elemento caratterizzante del manipolo di ”coraggiosi” che hanno aggredito medici e terrorizzato pazienti). E lo stesso vale per la ”stesa” (come si chiamano a Napoli le sparatorie che non hanno un obiettivo se non la riaffermazione del controllo del territorio) davanti alla caserma dei carabinieri.
Se la ricerca dei devastatori del Pronto soccorso e degli autori della sparatoria dovesse essere considerata quasi un corollario dell’inchiesta principale avranno vinto loro. Per l’ennesima volta.

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