Il sanfedismo e i suoi epigoni: come i reazionari manipolano il popolo tenuto nell'ignoranza
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Il sanfedismo e i suoi epigoni: come i reazionari manipolano il popolo tenuto nell'ignoranza

Erano i combattenti armati dal cardinale Ruffo, che nei 1799 restaurò il dominio borbonico a Napoli ponendo fine alla Repubblica napoletana. A combattere andarono contadini e banditi

Il sanfedisti sconfissero la repubblica napoletana e riportatono i Borboni sul trono
Il sanfedisti sconfissero la repubblica napoletana e riportatono i Borboni sul trono
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Giuseppe Costigliola Modifica articolo

2 Luglio 2023 - 00.01


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Quand’ero ragazzo, ai tempi della scuola, c’era un episodio della storia d’Italia che mi lasciava non poco perplesso: la tragica vicenda di Carlo Pisacane e il suo tentativo di rivolta nel Regno delle Due Sicilie finito in un bagno di sangue. Sì, proprio quello della funerea poesia che ci insegnavano alle elementari: “Eran trecento, erano giovani e forti, e sono morti”. Non mi spiegavo perché il nobile patriota e il manipolo di idealisti che guidava fossero stati massacrati proprio dalle masse contadine che egli aveva in animo di liberare dal giogo della monarchia borbonica. Proprio lui che collegava l’ideale di indipendenza nazionale alle aspirazioni di riscatto politico e sociale delle plebi rurali, lui che ne propugnava l’insorgenza offrendo loro la liberazione economica con l’affrancamento dai loro tiranni immediati: i proprietari terrieri. E quelle masse che era venuto a liberare cosa fanno? Trucidano lui e i suoi compagni. Insomma, non mi ci raccapezzavo.


Tempo dopo mi ritrovai in un teatro di provincia, dove rappresentavano un’opera di Vitaliano Brancati: “La governante”. Ad un certo punto, sulla scena compariva un villico mandato a Roma da un barone siciliano suo signore, per comparire davanti al tribunale in sua vece. In soldoni, il barone era in combutta sanguinosa con un tal brigante Letojanni, e per salvarsi dalla giustizia aveva convinto il suo “portiere” ad assumersi tutta la responsabilità del criminale rapporto. Sconcertato da tanta stupidità, il protagonista cerca di spiegare al servo del barone che così a pagare sarà solo lui, ma questo gli risponde: “Eccellenza, la volontà di Dio è che i padroni non figurino, perché non è giusto.” Ecco, con la fulmineità che è propria dell’arte, questa scena mi aveva chiarito in maniera lampante ciò che mi sfuggiva della storia di Carlo Pisacane. E in essa era condensata la spiegazione di quel particolare fenomeno storico che con la morte di Pisacane aveva parecchio a che fare: il sanfedismo.
Come ci illustra un qualsiasi libro di storia, il sanfedismo fu un multiforme movimento controrivoluzionario nato nel meridione d’Italia sul volgere del secolo XVII, in un periodo in cui le monarchie tradizionali furono rovesciate dalle repubbliche napoleoniche sostenute dall’esercito francese rivoluzionario.

Il termine, poi adottato in ambito storiografico, fu coniato dai rivoluzionari per definire i membri del partito avverso (che preferivano essere definiti “lealisti” o “legittimisti”) ed ebbe enorme diffusione nel 1799 per le gesta degli insorgenti del Regno di Napoli che costrinsero alla ritirata le truppe di Ferdinando IV e proclamarono la Repubblica partenopea, “sorella” di quella francese. La parola “sanfedismo” deriva dal nome dell’armata creata dal cardinale Fabrizio Ruffo, che tra il febbraio e il giugno di quel sanguinoso ultimo anno del secolo dei Lumi restaurò il dominio borbonico a Napoli ponendo fine alla Repubblica napoletana: “Esercito della Santa Fede”. In seguito il nome fu esteso a tutti i gruppi e alle associazioni cattoliche che nei vari stati italiani si opposero ai giacobini in nome della “difesa della Santa Sede”, e con essa di tutte le monarchie, ultimi rigurgiti reazionari di un mondo ormai superato dalla storia.


Pur potendo contare su buona parte dell’aristocrazia e della borghesia benestante, per una serie di ragioni (non ultima la dissennata politica messa in atto dai francesi, che si macchiarono di saccheggi, depredazioni e vessanti imposizioni fiscali) i giacobini furono piuttosto invisi agli strati popolari.

I vecchi volponi delle gerarchie ecclesiastiche ebbero così gioco facile nel manipolare ed aizzare il popolo, da sempre tenuto nell’ignoranza più assoluta e sotto il tallone di ferro del dominio più oscurantista. Armarono le masse, vi unirono preti bellicosi, banditi, delinquenti e recidivi di ogni risma cui promisero il perdono nei cieli e la cancellazione dei crimini commessi, e lanciarono l’agguerrita accozzaglia contro i rivoltosi che pure erano venuti a portare la libertà. E così, nelle parole di Benedetto Croce, “La monarchia napoletana, senza che se lo aspettasse, senza che l’avesse messo nei suoi calcoli, vide da ogni parte levarsi difenditrici in suo favore le plebi di campagna e di città, che si gettarono nella guerra animose a combattere e morire per la religione e pel re”. Già nel giugno del 1799, la dinastia dei Borbone aveva ripreso il suo antico potere.


In seguito il sanfedismo fu particolarmente attivo nello Stato della Chiesa, ed ebbe poi un ruolo non secondario nel contrasto alla Carboneria, e in genere all’azione dei liberali e dei repubblicani che tentavano di unificare questo disgraziato Paese. Fu quindi determinante nel fallimento del tentativo rivoluzionario di Pisacane, grazie ai cosiddetti “ciaurri”, che sobillarono i contadini contro i “ribelli”, che da questi furono massacrati uno a uno a colpi di roncola, pale e falci. Pare che Pisacane, idealista sino all’ultimo, esortò i compagni a non colpire il popolo ingannato dalla propaganda.


Il sanfedismo può essere addotto a classico esempio di come chi detiene il potere e la cultura possa facilmente manipolare per i propri fini le masse tenute nell’ignoranza, costringendole persino ad agire contro i propri interessi. La storia pullula di simili vicende che, lungi dall’essere superate, sono tutt’oggi il nucleo d’ogni lotta politica e sociale. Andando a semplificare, così si spiega il lungo dominio d’un Silvio Berlusconi, che col suo potere mediatico ha indottrinato le masse spingendole ad agire contro se stesse. Così si spiega il voto di larghe fette del popolo americano che hanno messo alla Casa Bianca un miliardario che se ne sbatte dei loro interessi, servendo solo quelli della sua famiglia e delle élite che lo supportano. E così via – gli esempi che si potrebbero fare sono legione.


Ora come allora, nell’antichità come in questa squallida postmodernità, il nodo è sempre quello: l’ignoranza. L’assenza di politiche della formazione, dello studio, ad ogni livello sociale. Pisacane teorizzava che ad ogni lavoratore fossero garantiti i frutti del proprio lavoro e addirittura l’abolizione della proprietà privata, “dalle leggi fulminata come il furto”, e si dichiarava sostenitore della proprietà collettiva delle fabbriche e dei terreni agricoli. Ma chi lo sapeva? Chi spiegava alle masse cosa avrebbe significato tutto ciò? Carlo Pisacane era convinto che la religione era “la causa più potente che si opponga al progresso dell’umanità”, in quanto effetto “dell’ignoranza e del terrore”. E furono proprio l’ignoranza e il terrore suscitato ad arte ad ucciderlo, a esorcizzare i suoi ideali libertari.


La “commedia” di Brancati si chiude con le parole del protagonista, che parlando ad uno scrittore che intende descrivere il personaggio del povero villico, lo incita così: “E nella sua descrizione ci metta che era una povera bestia cieca. Il suo padrone stesso, prima di mandarlo a Roma, gli aveva cavato gli occhi – prima questo poi questo – in modo che coi suoi stessi piedi quel povero merlo andasse a finire in carcere, e ci rimanesse per sempre. Scriva questo! Scriva questo!”


Il mondo non uscirà mai dall’incubo della tirannia e del dominio dei più forti se non con una lotta indomita e sistematica alla cecità procurata: all’ignoranza, all’incultura, all’inciviltà, all’oscurantismo. Progressista può dirsi soltanto chi si arma in questa battaglia quotidiana contro la barbarie. Il resto sono solo vuote parole.

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