Uccisa perché voleva liberarsi dalla mafia: condannati gli assassini di Lia Pipitone
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Uccisa perché voleva liberarsi dalla mafia: condannati gli assassini di Lia Pipitone

Trent’anni per i boss al 41 bis Nino Madonia e Vincenzo Galatolo, ritenuti il mandante e l’esecutore di quel delitto. Le indagini riaperte dopo un libro

Lia Pipitone
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17 Luglio 2018 - 19.19


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E’ stato un libro scritto dal figlio a riaprire il caso, ed oggi si è fatta giustizia per Lia, donna cresciuta nell’acquitrino della mafia e che voleva uscirne, libera. “Lia Pipitone fu uccisa per la sua voglia di libertà”, ha confermato il pubblico ministero di Palermo, Francesco Del Bene durante la requisitoria. “Una voglia di libertà che dava fastidio alla mentalità bieca e conservatrice di Cosa nostra: bastò il sospetto che avesse tradito il marito per far scattare la sua condanna a morte”.
Oggi, il rito abbreviato celebrato dal giudice Maria Cristina Sala si è concluso con la condanna a trent’anni per i boss al 41 bis Nino Madonia e Vincenzo Galatolo, ritenuti il mandante e l’esecutore di quel delitto. E così dopo 35 anni arriva giustizia per Lia, la figlia 24enne del potente boss mafioso dell’Acquasanta Nino Pipitone. Lia fu assassinata il 23 settembre 1983 durante quella che ad una prima lettura era apparsa una rapina in una sanitaria di via Papa Sergio. All’epoca, iniziò subito il depistaggio della mafia, per evitare che si risalisse al vero movente del delitto. “Oggi ha vinto la verità di Lia”, ha detto l’avvocato Nino Caleca, che ha assistito il figlio e il marito della giovane, costituiti parte civile. Come detto, è stato il libro scritto dal figlio di Lia, Alessio, con il giornalista di Repubblica Salvo Palazzolo – “Se muoio sopravvivimi” – a far riaprire il caso, a portare al nuovo processo. Negli anni scorsi, la Procura aveva ottenuto il rinvio a giudizio il padre della giovane, ma era arrivata un’assoluzione.
Nel nuovo processo sono intervenute le dichiarazioni del collaboratore di giustizia Francesco Di Carlo, che ha confermato i sospetti. “Rosalia la conoscevo, con lei avevo un rapporto di affetto – ha messo a verbale – Era nata per la libertà ed è morta per la sua libertà. Mio fratello Andrea, all’epoca responsabile della famiglia mafiosa di Altofonte, mi riferì che il padre di Lia aveva deciso la punizione della donna perché non voleva essere criticato per questa situazione incresciosa”. La “situazione incresciosa” era un rapporto di amicizia con un lontano cugino, che una voce insistente trasformò in una relazione extraconiugale. Anche quel giovane fu punito. “Cosa nostra doveva ribadire la sua ortodossia”, ha spiegato il pm Del Bene nella requisitoria, e il giorno dopo l’omicidio di Lia, due mafiosi, che si finsero operai del gas, entrarono dentro l’abitazione del ragazzo e lo scaraventarono giù dal quarto piano. Ma prima, misero in atto l’ennesimo depistaggio. Lo costrinsero a scrivere una lettera, in cui diceva che voleva suicidarsi per amore.

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