Il racconto del mio amico d'infanzia: così il prete pedofilo ha abusato di me

Il racconto di un orrore portato dentro per anni e confessato solo quando ormai gli anni dell'infanzia erano stati distrutti da un mostro

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Giuseppe Costigliola Modifica articolo

12 Giugno 2018 - 20.09


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Una vittima degli abusi sessuali commessi dal clero cattolico, io l’ho conosciuta. Era un amichetto, mio vicino di casa che da bambino, negli anni Settanta, frequentava la parrocchia di una Chiesa di una cittadina del basso Lazio. In quella “comunità” rimase sino ai 25 anni circa, poi, improvvisamente, la abbandonò. Il suo distacco coincise con il pensionamento di Don Angelo, il parroco che aveva guidato il suo gregge per trenta lunghi anni. Questo lo venni a sapere solo anni dopo, quando (e ne ignoro il motivo) il mio amico mi rivelò l’orrore che si portava dentro.

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Su Don Angelo circolavano strane storie. Brutte storie. Voci infamanti, sussurrate nei bar, bisbigliate tra i crocchi di sfaccendati aggreggiati nelle piazze, da genitori intimoriti negli androni dei palazzi. Con linguaggio pudico e il ricorso all’eufemismo, quasi che il nominare le cose per quel che erano suscitasse troppo orrore, in quel dilatato paesone si vociferava che Don Angelo si prendeva “certe libertà” con i bambini a lui affidati. Prove però non ve n’erano, denunce, a quel che so, mai ve ne furono, e il vecchio pastore lasciò la cura delle anime per sopravvenuta anzianità. Don Angelo lo avevo conosciuto, anche se superficialmente, e quelle maldicenze mi ferivano, e chiedevo con un certo sgomento: avevano un qualche fondamento?

Molti anni dopo incontrai per caso il mio antico amichetto. Non faticammo a riconoscerci, malgrado gli anni ci avessero incanutito. In pochi minuti ripercorremmo le rispettive vite, indugiando sui ricordi. Lui però preferiva parlare dell’oggi, viveva e lavorava a Roma, la nostra cittadina l’aveva lasciata da anni. Ebbi la netta sensazione che rifuggisse quell’antico tempo, quando io vi tornavo battendo sulla corda della nostalgia lui distoglieva lo sguardo, sorvolava, mutava discorso. Ad un certo punto gli nominai quella parrocchia, e il suo sguardo perennemente triste s’incupì ancor di più. E allora, senza una ragione, gli sparai quella vecchia domanda che in gioventù mi aveva così a lungo arrovellato: “Senti un po’, tu che conoscevi bene Don Angelo, ma in quelle voci infamanti su di lui c’era qualcosa di vero?” Il mio amico mi fissò, gli occhi sgranati. Mi pentii subito di quella sciocca domanda, abbassai il capo, cincischiai col bicchiere sul tavolino (eravamo in un bar): non sopportavo e non capivo quel suo sguardo stravolto. Dopo qualche secondo scattò in piedi e mi disse imperioso: “Vieni, usciamo”. Lo seguii, interdetto e confuso. Fu così, passeggiando per le strade di un centro devastato dai turisti, che il mio amico mi aprì il suo cuore, come si dice in questi casi.

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Mi riversò addosso un torrente fetido di parole, che ricrearono in tutto il loro orrore fatti, scene, particolari disgustosi: il mio vecchio amico era stato sistematicamente abusato da Don Angelo, dagli otto ai dodici anni. Poi, d’improvviso, il prete aveva perso interesse per lui, per il suo corpicino, e aveva rivolto le sue luride attenzioni ad un altro bambino, più piccolo. Se per me venire a sapere queste verità fu scioccante, cosa fu per lui, mi sono poi chiesto, cosa è per i tanti, i troppi che hanno subito e subiscono tutt’ora violenze così inaudite, traumi così profondi che niente e nessuno potranno mai sanare?

Non ci sono mezze parole: il problema della pedofilia clericale è intollerabile e va risolto alla radice. Portare alla luce immonde violenze, sensibilizzare l’opinione pubblica è soltanto il primo passo di un lungo e impervio percorso, e la notizia giunta ieri sulla costituzione a Ginevra di un nuovo organismo, l’ECA (Ending Clerical Abuse), un’associazione internazionale formata da vittime di abusi e attivisti che intendono combattere la pedofilia clericale, è certo un proficuo passo in avanti. L’ECA si propone di indicare all’opinione pubblica mondiale i vescovi accusati di aver protetto i preti pedofili e inviterà il pontefice a creare un nuovo strumento centralizzato in grado di individuare e punire i colpevoli e i loro protettori, che non di rado si annidano nelle più alte gerarchie vaticane, ad epurare i dirigenti ecclesiali coinvolti nei ripetuti scandali di abusi sessuali su minori venuti alla luce in questi anni. Perché la storia dimostra che il caso Cile, dove tutti i membri dell’episcopato hanno rimesso il proprio mandato nelle mani del papa, assumendosi di fatto la responsabilità di aver coperto i sacerdoti colpevoli di abusi sessuali sui minori, è tutt’altro che un caso isolato. Per il momento, il pontefice ha accettato le dimissioni di tre vescovi: Juan Barros Madrid, Cristian Caro Cordero, Gonzalo Duarte Garcia de Cortazar. Una delle vittime del sacerdote Fernando Karadima (che ha beneficiato delle più alte protezioni), Juan Carlos Cruz, ha esultato sui social: “Comincia un nuovo giorno per la Chiesa cattolica in Cile! La banda dei vescovi delinquenti comincia a disgregarsi!”

Non bisogna tuttavia farsi troppe illusioni. Strappare foglie marce è certo lodevole e necessario, ma il problema, evidentemente, è di natura culturale. Se le gerarchie ecclesiastiche volessero davvero estirpare alla radice il male che attraversa l’intera organizzazione cattolica, dovrebbero cercarlo all’origine, lì dove nasce e prolifera: nei seminari. Dovrebbero quindi intraprendere una vera e propria rivoluzione culturale e di pensiero, una sistematica rifondazione e riorganizzazione delle loro strutture, rivedere radicalmente le modalità e le psicologie con cui vengono cresciuti, addestrati e formati i loro funzionari. Perché è nelle scuole seminariali che si genera e si radica quella mentalità settaria ed elitaria, omertosa e collusiva, che può generare degli autentici mostri, individui insensibili e dalla sessualità distorta, educati nell’incrollabile convinzione di impunibilità: i giovani preti sanno bene che non saranno mai chiamati a rispondere dei delitti commessi nell’esercizio delle loro funzioni. Una tale “pedagogia”, lungi dall’insegnare e diffondere un messaggio evangelico, finisce per solleticare e magnificare l’istinto egoistico e predatorio.

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La guardia su tali osceni delitti, compiuti contro vittime davvero innocenti, non dovrà mai essere abbassata, ma se non ci si convince che il problema è culturale questo antico male non verrà mai debellato.

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