Falcone e Borsellino: la democrazia si conquista e difende giorno per giorno

Tra poco saranno passati 25 anni dalla strage di Capaci: ci vuole intransigenza morale nei confronti del potere

25 anni dalla strage di Capaci
25 anni dalla strage di Capaci
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17 Maggio 2017 - 15.55


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di Ottavio Sferlazza*

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Da molti anni ormai non riesco a sottrarmi a quello che ormai, dalle stragi del 1992, considero un vero e proprio impegno morale, una forma di “militanza politica” in difesa della dimensione etica della legalità: andare nelle scuole per incontrare gli studenti, non per fare una lezione ma per una testimonianza ed una parola di speranza nella prospettiva di contribuire alla crescita culturale e politica delle giovani generazioni.

L’importanza di tali confronti con gli studenti era già stata colta, fin dagli anni ottanta, dal compianto consigliere istruttore di Palermo, Rocco Chinnici, rimasto vittima della strage di via Pipitone Federico il 29 luglio del 1983, che ho avuto l’onore di conoscere quando nel 1978, giovane uditore giudiziario, venni affidato per un periodo di tirocinio all’allora giudice istruttore di Palermo, Paolo Borsellino, che me lo presentò quale capo di quell’ufficio.

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Alla base di questo impegno morale e sociale v’è il profondo convincimento, sempre più maturato nel corso degli anni, che sia ormai acquisita alla coscienza collettiva la consapevolezza che la risposta giudiziaria non costituisce una soluzione taumaturgica del problema della criminalità organizzata, ma occorre altro e cioè una crescita culturale e politica complessiva della società civile e delle istituzioni che va perseguita e costruita quotidianamente, anche attraverso le numerose iniziative che l’Anpi e l’associazione “ Quello che non ho” hanno voluto promuovere in questi giorni: una riflessione collettiva con gli studenti che si affacciano alla maggiore età su temi di grande attualità, quali la legalità e la democrazia in una terra come la Calabria, dove lavoro da oltre otto anni, che presenta, al pari della mia Sicilia, il problema gravissimo di una forte presenza della criminalità organizzata e di una illegalità diffusa.   

In questa prospettiva di crescita della società civile desidero sottolineare l’importanza della “memoria” per dissentire dall’opinione di chi ritiene che le commemorazioni di stragi ed in genere di donne ed uomini delle istituzioni, e non solo (penso a sacerdoti come don Pino Puglisi, imprenditori come Libero Grassi, giornalisti come Giuseppe Fava),  vittime di attentati mafiosi, si risolvono in una sterile forma di retorica senza alcuna utilità pratica se non quella di costituire una passerella per uomini politici o altri uomini delle istituzioni.

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Voglio qui ribadire che la “memoria” non deve essere solo un momento rievocativo o commemorativo ma un modo per riscattare storicamente e moralmente quel processo di rimozione collettiva del fenomeno mafioso, ma anche di altri fenomeni, come la shoah, che ci rende tutti colpevoli.

La memoria serve soprattutto a respingere tutti i tentativi di “negazionismo” e a favorire, per contro, un autentico processo di conoscenza di certi fenomeni che deve diventare a sua volta coscienza critica per contrastare quotidianamente, soprattutto culturalmente, il fenomeno mafioso

Ma proprio la memoria, quale importante momento e strumento di analisi critica, mi induce a condividere con chi avrà la pazienza di leggere queste mie riflessioni le emozioni provate nel 2014 quando, per la prima volta, ho visitato la “casa-memoria” di Peppino Impastato, a Cinisi, divenuta meta di un vero e proprio pellegrinaggio della legalità e dell’antimafia.

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La casa, con le tipiche persiane dei nostri paesi a livello della strada, che fungono anche da porta di ingresso, era aperta a chiunque volesse entrarvi per visitarla.

Mi ha ricordato le tipiche modalità con cui dalle nostre parti, in Sicilia, si tengono i lutti: con la porta di casa aperta, appunto; e questa immagine mi è stata evocata in particolare dal vedere un gruppo di visitatori seduti sui divanetti posti ai lati delle pareti appena entrati nella modesta abitazione. Qui, però, il “lutto” aveva una dimensione collettiva ed il lento processo storico della sua elaborazione ha già prodotto un risultato impensabile venti anni fa: il riscatto di una comunità da una situazione di azzeramento della propria dignità di cittadini.

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Questo riscatto era chiaramente espresso da quelle persiane spalancate al vento nuovo della legalità, mentre per anni, quando Peppino conduceva la sua coraggiosa battaglia contro la mafia, probabilmente rimanevano chiuse o al più socchiuse, come era tipico nei paesi della nostra terra, quasi a simboleggiare la paura e la chiusura, soprattutto culturale, di una comunità atavicamente rassegnata, al più, a “sbirciare” sugli eventi, così perpetuando quella situazione di assoggettamento e di omertà sulla quale il potere mafioso ha fondato il clima di intimidazione diffusa che gli ha consentito di prosperare.

Di fronte, a “cento passi”, ho visitato la ex casa di “don” Tano Badalamenti, su tre piani, con un balcone che si affaccia sul corso principale, ben più “sontuosa”, con scala interna fornita di ringhiera di legno e gradini in marmo.

La prima cosa che mi ha colpito è il contrasto tra la “ricchezza” della modesta casa di Peppino con le pareti ed i mobili pieni di foto ed oggetti, soprattutto libri, a lui appartenuti ed il vuoto di quella del boss: sì perché la sua ex abitazione, ormai confiscata, era completamente priva di mobili e suppellettili, come vuota di valori era la sub-cultura che esprimeva il suo potere mafioso.

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Per un momento mi sono chiesto: e se la si lasciasse in questo stato a simboleggiare e perpetuare il contrasto tra lo squallore di una cultura di morte e la imperitura vitalità della casa di Peppino? Ma forse è meglio, mi sono detto, che lo Stato si riappropri della propria “sovranità” e riaffermi, anche simbolicamente, la superiorità culturale della legalità, trasformando quell’immobile in luogo di eventi e iniziative che consentano a quella comunità di sentirsi partecipe di uno sforzo collettivo per la rifondazione della nostra Sicilia sulla base di valori nuovi e condivisi.

Sono profondamente convinto che la scuola sia l’unico laboratorio culturale che può concretamente promuovere la ricostruzione, la conservazione e la promozione di questa memoria collettiva; che possa favorire in ciascuno di noi la scelta irreversibile in favore di valori e principi in nome dei quali tanti servitori dello Stato e cittadini comuni hanno sacrificato la loro vita e, quindi, la consapevolezza di poter contribuire, ciascuno con il proprio quotidiano impegno in difesa della legalità, alla costruzione di una nuova etica collettiva e di una nuova etica pubblica.

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La scuola è l’unico laboratorio culturale che può spezzare la logica di quel circuito perverso fondato sull’etica dell’ordine e dell’obbedienza acritica, che imperano all’interno della famiglia mafiosa e che perpetuano il modello culturale della sottomissione delle mogli e dei figli al capo famiglia, segnandone ineluttabilmente le scelte di vita e quindi il futuro. All’etica dell’ordine e dell’obbedienza dobbiamo saper opporre l’etica del discorso e della responsabilità.

Ma oggi più che mai, e lo dico da laico, un ruolo fondamentale sul piano della formazione delle coscienze può e deve essere svolto, non solo dalla scuola, ma anche dalla Chiesa: oggi perché questo straordinario uomo, che non a caso porta un nome carico di pregnante valore simbolico, Papa Francesco, che sa parlare ai cuori ed alla coscienze, anche dei non credenti, con un linguaggio nuovo, a pochi giorni dal suo insediamento ha detto una cosa importante : la politica come servizio e non come potere.

Un Papa che per la prima volta ha usato parole critiche contro un sistema capitalistico profondamente ingiusto che favorisce la concentrazione della ricchezza e mortifica con le diseguaglianze economiche e sociali la dignità di milioni di persone.

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Un Papa che nella sua ultima enciclica ecologica, “Laudato sì”, ha saputo esprimere una cultura ambientalista che si ricollega ad una ben più ampia etica della responsabilità, in cui mi è sembrato di riconoscere il pensiero del grande filosofo Hans Jonas.

Da siciliano, che lavora da oltre otto anni in Calabria, sono profondamente convinto che tanto la mafia quanto la ‘ndrangheta hanno prosperato per l’isolamento dei pochi che le combattono e per il disimpegno dei molti che rinunciano ad ogni possibilità di riscatto della propria dignità di cittadini rassegnandosi al ruolo di sudditi.

L’alto numero di provvedimenti di scioglimento di consigli comunali e provinciali calabresi, conseguenti a fenomeni di infiltrazione e di condizionamento di tipo mafioso, suffraga la fondatezza del mio profondo convincimento che le organizzazioni mafiose, comunque localmente denominate, si sono progressivamente imposte e radicate nel tessuto sociale soprattutto nelle aree geografiche in cui più sensibilmente si è manifestata la crisi etico-sociale delle istituzioni.

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Se non si recupera il senso profondo della legalità questo ruolo di sudditanza sarà perpetuato e i diritti di cittadinanza resteranno dei valori privi di contenuto ed effettività.

Se il cittadino interiorizza fin da giovane la consapevolezza che una legittima aspettativa non è un diritto che va esercitato e di cui va pretesa la tutela, bensì una richiesta di favore al politico o al burocrate di turno, allora è chiaro che da una parte lo Stato apparirà sempre più come una entità distante e nemica e, dall’altra, l’amico di turno che ci ha risolto il problema sarà, invece, ritenuto meritevole di gratitudine. Ma questa gratitudine poi si risolverà in un debito di riconoscenza, in una cambiale in bianco che prima o poi verrà a scadenza, magari con gli interessi; e se alla scadenza il debitore avrà frattanto occupato un ruolo sociale di rilievo o, ancora peggio, è preposto al controllo di legalità, la controprestazione potrà comportare la violazioni di doveri funzionali ed un livello di compromissione che ne appanneranno definitivamente l’immagine, la credibilità e l’affidabilità, contribuendo così a perpetuare ed alimentare il senso di sfiducia nelle istituzioni.

Ai giovani desidero rivolgere, ancora una volta, l’augurio e l’invito a vivere da uomini liberi, ma con la consapevolezza che solo la legalità assicura la libertà – come ammoniva Piero Calamandrei – e quindi la democrazia, la quale si conquista e si difende, giorno per giorno, anche attraverso una diffusa e costante intransigenza morale nei confronti del potere: solo la pratica di questa intransigenza potrà promuovere la consapevolezza in ciascun cittadino dei propri diritti e dei propri doveri, ma anche il rifiuto dei privilegi.

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*Procuratore della Repubblica di Palmi

 

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