I frutti del femminismo malato e sessista

In questi ultimi anni raccogliamo i frutti di un femminismo malato: donne e uomini si guardano sentendosi reciprocamente nemici.

Femminismo- anni "70
Femminismo- anni "70
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Irene Gianeselli Modifica articolo

8 Maggio 2017 - 15.17


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Non è mai stato così difficile come in questo tempo essere uomini e donne: siamo troppo impegnati a cercare di capire quello che si muove oltre noi per occuparci di quello che siamo e che stiamo intimamente diventando. Del resto, gli slogan non fanno che ossessionarci e rispondere al nostro posto.

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“Qualunque cosa vogliate essere, siate voi stessi” è così che chiudiamo gli occhi e continuiamo ad essere tranquilli.

Abbiamo sventrato le parole e i gesti e adesso ci terrorizzano come teschi inespressivi: dobbiamo ammetterlo, abbiamo sostituito l’essenza dei concetti, l’articolazione dei discorsi con gli slogan.

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È così facile oggi violentare quello che di più intimo una persona, uomo o donna che sia, vorrebbe proteggere: basta aggredirla sull’orientamento sessuale o sul suo modo di vivere la propria sessualità (due aspetti completamente diversi che invece si tende a sovrapporre) fino a quando non avrà dato la risposta che vogliamo. Cambiano i modi della violenza, diventano più vili. Vogliamo i corpi e le anime esposte per giudicarli e martoriarli, a seconda della pena che è stata già stabilita.

“Qualunque cosa vogliate essere, siate voi stessi” lo slogan è incompleto, o meglio, il sottotesto non è sviluppato, manca il concetto che permette di attaccare chi appare diverso: “Qualunque cosa vogliate essere, siate voi stessi, ma scegliete quale stereotipo incarnare”.

“Maschi contro femmine, femmine contro maschi”.

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La banalità della questione di genere e la sua ferocia.

I maschi sono forti, le femmine sono deboli.

I maschi possono fare tutto ciò che vogliono, le femmine devono ricavarsi il proprio spazio se i maschi lo consentono. I maschi sono principi azzurri, ma anche padri padroni. Le femmine sono principesse che devono aspettare di essere salvate, ma sono anche delle puttane in attesa di redenzione. Non ci sono alternative.

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Essere donna così non è facile, soprattutto quando si è molto giovani.

La conosciamo tutte e tutte facciamo i conti con la battuta pesante sul nostro corpo, conosciamo la cattiveria di chi crede di poterci svendere e comprare per il nostro bel visino e conosciamo quanto sia terribile sentirsi dare della strega se non ci stiamo, così come conosciamo gli sguardi e le illazioni varie ed eventuali. Con il tempo abbiamo imparato a temere, a calcolare, a reagire. Questo modo maschio di approcciare la femmina è antico e ben radicato, ma quando sento parlare di emancipazione femminile non posso evitare di rileggere le pagine in cui Milan Kundera ne L’insostenibile leggerezza dell’essere racconta di Tereza urtata e offesa per la strada dalle altre ragazze con gli ombrelli che vogliono passare: è una metafora di cosa significa essere donna tra le donne, una metafora semplice e potentissima che non ha bisogno di essere spiegata.

Emancipazione è una parola terribile in questi giorni: significa per lo più che le donne devono trasformarsi in maschi con la gonna, armate di ego fallocentrici, pronte a divorarsi tra loro, a porsi sullo stesso livello degli uomini, aggredendoli e mostrandosi altrettanto capaci di violentarli anche solo con un sguardo.

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Essere uomini così non deve essere facile. Gli uomini hanno insegnato alle donne come essere crudeli e adesso sanno che alle donne piace giocare con la loro impotenza.

Del resto, adesso dagli uomini si pretende, sempre in base allo stereotipo “Siate principi, ma anche padroni”. Dovrebbe essere naturale apprezzare la gentilezza di un uomo che ci apre la porta del bar e ci lascia passare per rispetto, non per farci sentire inferiori e invece capita che la donna oggetto di gentilezza si innervosisca e inveisca anche.

Nel piccolo universo virtuale le cose non vanno diversamente.

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Quante donne apprezzano di più il maschio che posta se stesso in pose accattivanti sui social? Quante donne pretendono di essere guardate e non ascoltate e criticano il maschio che non le soddisfa?

In questi ultimi anni raccogliamo i frutti di un femminismo malato, paradossalmente sessista, che non ha permesso alle donne e agli uomini di cominciare a guardarsi senza sentirsi reciprocamente nemici e che, del resto, non ha impedito un approccio morboso e violento: più insistiamo sull’idea che bisogna dimostrare di essere donne e uomini secondo canoni che variano a seconda dei contesti, più fondiamo le nostre esistenze e le nostre relazioni su un tacito compromesso sociale su cui si può sempre intervenire a seconda di ciò che si vuole ottenere. È ancora fascista questo modo di organizzare il mondo, da una parte i maschi, dall’altra le femmine, nel mezzo una tolleranza che non significa parità politica: che vinca il più forte.

“Le donne si occupino delle femmine e gli uomini si occupino dei maschi” è l’altro grande slogan che ci fa chiudere gli occhi e rimanere tranquilli, quando assistiamo impotenti all’ennesimo, ingiustificabile femminicidio siamo del tutto impreparati e ci rifugiamo nella retorica.

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Vogliamo maschi eccitati, decisi e femmine provocanti, prepotenti, abili nello stare al gioco ma non ci accorgiamo di quanto sia veramente profondo l’orrore della volontà perversa di chi vuole prendersi la vita della propria compagna, di chi vuole dominarla a tutti i costi perché è sempre stato così e adesso è troppo difficile gestire una relazione. Siamo immersi in una contraddizione che a prescindere dagli esiti dei singoli casi significa violenza sull’altro o sull’altra, violenza prima di tutto interiore perché ci si deve adeguare ad un canone sempre e comunque, violenza fisica perché se non ti adegui vieni uccisa (o diventi un assassino) o resti sola (o solo).

In tutto questo condanniamo anche gli uomini di cervello e di cuore.

“L’Uomo Nero – stereotipi maschili raccontati dalle donne” (Caracò Editore) a cura di Elisabetta Bucciarelli credo si possa considerare una risposta interessante al femminismo e al maschilismo malati di cui la nostra società ha voluto nutrirsi.

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Sei scrittrici (Simona Giacomelli, Elena Mearini, Cira Santoro, Anna Scardovelli, Monica Stefinlongo e Cristina Zagaria) si prendono cura dei protagonisti cui hanno scelto di dare voce con estrema delicatezza, avendo come premessa la volontà di essere intellettualmente oneste nei confronti di queste storie e dei lettori.

C’è qualcosa che dovremmo difendere, lottando con coraggio, ed è una cosa che non dobbiamo temere di riconoscere negli uomini tanto quanto nelle donne: la tenerezza dell’umanità. L’Uomo Nero e la Strega Cattiva non stanno in agguato sotto i nostri letti, ma ce li portiamo dentro fino a trasformare gli altri e noi stessi in mostri.

 

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