La Cassazione annulla il proscioglimento dell’editore Mario Ciancio Sanfilippo

Uno degli uomini più potenti della Sicilia, il cui motto è da sempre “io non vendo, compro”, andrà a processo per mafia

Mario Ciancio Sanfilippo
Mario Ciancio Sanfilippo
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16 Settembre 2016 - 14.52


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Il verdetto della Cassazione in larga misura era stato annunciato dal provvedimento del Giudice dell’Udienza preliminare, Gaetana Bernabò Di Stefano che si era, diciamo così, presa alcune  simpatiche libertà giuridiche, tipo l’inesistenza del reato di concorso esterno in associazione mafiosa, per tirar fuori dai guai uno degli uomini più potenti della Sicilia, forse il più potente: l’editore Mario Ciancio Sanfilippo.

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Sembra avercela fatta Mario Ciancio ad evitare il processo, ma la Cassazione ha accolto il ricorso della Procura di Catania e adesso dovrà nuovamente fare i conti con l’accusa di mafia davanti ad un nuovo giudice. Scamparla per la seconda volta sarà davvero complicato.

Ciancio è uno degli editori più noti del Paese, tanto da ricoprire per anni la carica di presidente della Fieg, la federazione degli editori di giornali. Comunque vada il processo, l’atto d’accusa dei magistrati Antonino Fanara e Agata Santonocito per lui è pesantissimo, non solo per i contenuti,  ma soprattutto perché quell’atto, che gli impone il marchio di ‘imputato’, racconta alla sua città, al suo feudo che dei magistrati a Catania hanno osato l’inosabile.

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In un Paese che ha mandato a processo Giulio Andreotti e innumerevoli volte Silvio Berlusconi, giusto per citare i due esempi, più eclatanti, nessuno aveva mai osato toccare questo personaggio, nessuno per decenni aveva osato accendere i riflettori di un’indagine sul suo sistema di potere, andare a guardare gli intrecci, le relazioni pericolose, nessuno aveva osato andare a chiedersi l’origine e la proliferazione della sua ricchezza che appariva senza limiti.

Il suo motto di famiglia era “io non vendo, compro”. Da anni ormai Ciancio non compra più ma chiude e manda in mezzo alla strada i suoi dipendenti. Ma se chi lavorava per lui finisce  disoccupato e disperato, la sua fortuna è sempre rimasta al sicuro. I suoi soldi in larga parte stavano ben lontani da Catania, occultati in conti svizzeri che alcuni ufficiali della Guardia di Finanza hanno pazientemente rintracciato.  Oggi i giudici si chiedono, tra le altre cose, con quali denari Ciancio ha fatto la sua fortuna. Una domanda, irriverente, che nessuno aveva mai osato fare. La vulgata diceva che la ricchezza di Ciancio arrivava dallo zio Domenico Sanfilippo e dalla buona dote portata dalla moglie. Ma basta la sostanziosa eredità dello zio e la pur ricca dote della sua consorte a spiegare questo fiume di soldi? Le carte e le dichiarazioni fiscali, acquisite ai 48 faldoni che compongono l’istruttoria, pare dicano che non basta.

Alle prime domande riguardo ad un tesoro di 52 milioni e seicento mila euro trovato nei forzieri delle banche svizzere, Ciancio ha dato risposte false. Ha mentito, dicono i magistrati, e quella incapacità a fornire una spiegazione ha convinto la Procura a chiederne la confisca. Colpire Ciancio nel portafoglio è un colpo micidiale. Quei 52 milioni sono pericolosissimi perché aprono uno scenario importante ed è quello degli intrecci, delle amicizie del passato, amicizie come quella con il defunto cavaliere del lavoro Carmelo Costanzo a sua volta vicino alla famiglia catanese di Cosa nostra.

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Con Costanzo, Mario Ciancio acquistò il 16,57% del pacchetto azionario del Giornale di Sicilia. Un ingresso che sarebbe stato “benedetto” da Vito Ciancimino, almeno stando al racconto fatto ai magistrati catanesi da Massimo Ciancimino, racconto che va preso con le molle ovviamente, ma che apre squarci inquietanti. Ma i rapporti con Costanzo si sono fermati a quell’affare? I magistrati vogliono capire se vi sia un filo rosso che lega il denaro trovato in svizzera con altri affari e con il defunto “cavaliere dell’apocalisse”. E ancora, a proposito di amicizie e relazioni entrano prepotentemente i nomi di certi soci di affari come quelli nella costruzione del centro commerciale alle porte di Catania. In quell’affare Ciancio era in società, tra gli altri, con Tommaso Mercadante, figlio del radiologo palermitano Giovanni Mercadante, condannato in via definitiva per mafia, e nipote dello storico capomafia di Prizzi.

 

La notizia non sta però in nulla di tutto questo. Sta nel fatto che, per sentenza di Cassazione, è definitivamente finito il suo potere.

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Un potere feroce, che ha divorato una città e ne ha pesantemente condizionato lo sviluppo. Una tavola imbandita dove mangia uno solo, ecco cos’è stata la Catania di Ciancio. Ogni affare, ogni iniziativa imprenditoriale era preclusa a chi non si adeguava al suo potere. O si stava dalla sua parte o era meglio cambiar aria. Un regime medioevale.

 La prima vittima è stata la coscienza civile. Una città obbligata al conformismo, al luogo comune. Ciancio ha ucciso anche la libertà dei catanesi di potersi formare una libera opinione. Ha soffocato, spegnendole tutte le iniziative editoriali che potessero rappresentare un’alternativa alla sua verità. Ha obbligato per venticinque anni La Repubblica, che ha supinamente accettato il pactum sceleris, a non distribuire nelle edicole della provincia di Catania le copie dell’edizione siciliana del giornale e per un decennio ha affidato, per singolare coincidenza, la corrispondenza da Catania a Michela Giuffrida, una delle fedelissime di Ciancio, poi finita al Parlamento Europeo eletta nelle liste del PD, ma sponsorizzata dai fedelissimi dell’ex Governatore Raffaele Lombardo, condannato per concorso esterno in associazione mafiosa.

Per decenni stabiliva lui chi poteva o non poteva esercitare la professione di giornalista, pochi sono sfuggiti a questa condizione. Una ferra mania del controllo per difendere dal potere della parola il suo sistema di affari e quello dei suoi amici o dei suoi compagni di strada. Un monopolio totale dell’informazione siciliana che ha determinato un immenso poter di ricatto che Ciancio ha avuto e in larga misura ha ancora anche sulla politica, destra e sinistra non fa differenza, asservita ai suoi voleri, ai suoi bisogni, alla sua smisurata fame di denaro. Un potere di ricatto, di favori incrociati e soprattutto l’uso spregiudicato dei suoi media utilizzati come una vera e propria arma. Chi non si adeguava veniva semplicemente cancellato da una sorta di lupara bianca mediatica. Ma non solo, in almeno un’occasione, stando alle testimonianze raccolte dalla Procura, Ciancio avrebbe addirittura minacciato chi non si adeguava ai suoi voleri, affermando che sarebbero stati arrestati e lui avrebbe scelto su quale pagina pubblicare la notizia e persino la foto da usare. Ecco, in quel racconto c’è forse l’essenza del personaggio: il sarcasmo e la ferocia, unite e celate dietro un benevolo aspetto di mitezza. Un ritratto assai più completo del suo sistema di potere lo ha tracciato la commissione nazionale antimafia, che ha presentato al Parlamento una dettagliata relazione su informazione e mafia. Ben due capitoli sono dedicati a Ciancio, ed il racconto che ne esce è devastante.

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Ciancio ha i suoi rituali per celebrare il suo potere. Si presenta raramente alle riunioni pubbliche, di solito resta poco. Scarsa vita mondana. Il centro del suo potere è un piccolo studio con annessa sala riunioni. È il sancta sanctorum del tempio dove celebra il suo potere. Nessun politico può astenersi da rendere visita. Un atto di vassallaggio a cui nessuno, o quasi, si è mai sottratto. Tutti si sono seduti a quel tavolo facendosi fotografare con lui e riconoscendo Ciancio come il principe della città. Con alcuni suoi interlocutori compie un singolare rito: prima che l’ospite beva, assaggia un cucchiaino di caffè dalla sua tazza.

Mantiene forti le sue relazioni, tanto da ottenere nonostante la pesantissima accusa di concorso esterno in associazione mafiosa, un surreale articolo firmato dal Capo dello Stato sul suo giornale in occasione del settantesimo anno di vita della testata. Riesce ancora, seppur con difficoltà, a far tener aperti i cordoni della borsa alle banche che, ad oggi, non hanno mai chiesto di rientrare alle sue aziende, nonostante una condizione di non propria floridezza.

 Nel suo studio, per decenni i politici, ministri, segretari di partito, presidenti della Regione si sono presentati in un aperto atto di genuflessione travestito da intervista. Ciancio imponeva la visita alla sua sede e come un signorotto medievale riceveva chi si recava a Catania. Poi affidava la benevola intervista a Tony Zermo e faceva scattare una foto che lo ritraeva insieme al potente di turno e l’indomani la pubblicava in bell’evidenza sul suo giornale. Un immagine che spiegava chiaramente chi comandava a Catania. Dove fosse il vero potere.  Una prassi umiliante  alla quale in pochissimi si sono sottratti.

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Oggi Ciancio sembra giunto al capolinea, al crepuscolo. Eppure a Catania molti restano muti, incapaci a reagire. Non muove un muscolo Confindustria, si la “Confindustria della legalità”, che continua a tenerlo tra i suoi iscritti, l’Ordine dei giornalisti, che si è giustamente costituito parte civile nel processo, ma che, a parte una censura per la violazione della “Carta di Firenze” non lo ha mai sospeso nonostanet sia imputato di un reato gravissimo e ancora il Comune di Catania, che si è costituito parte civile in tutti i processi di mafia, ma che si è scordato, fino ad ora, di farlo proprio nel processo contro Ciancio.

Balbettii, timori certo, ma anche gratitudine di tanti catanesi per i tanti favori che Ciancio elargiva per comprare fedeltà e ossequio, ma anche e soprattutto una diffusa vocazione al servaggio che nessuna sentenza di Tribunale o Cassazione potrà mai estirpare dall’anima di chi per decenni ha vissuto considerando il servaggio il “migliore dei mondi possibili”.

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