Ma che fa il Sap, rivendica il delitto Aldrovandi?

Cinque minuti di applausi a tre dei quattro condannati per l'omicidio Aldrovandi da parte dei delegati del maggior sindacato di polizia [Ercole Olmi]

Ma che fa il Sap, rivendica il delitto Aldrovandi?
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30 Aprile 2014 - 08.46


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di Ercole Olmi

Non si può dire che sia stato che un delitto perfetto ma tre dei quattro agenti assassini di Federico Aldrovandi si sono beccati circa cinque minuti di applausi in piedi da centinaia di colleghi delegati alla sessione pomeridiana del Congresso nazionale del Sap, il sindacato autonomo di Polizia. Roba da far impallidire perfino i quattro gatti buontemponi e nonviolenti del Coisp. Il Sap, è tradizionalmente il serbatoio dei voti di destra dei poliziotti, ed è stato a fianco dei quattro parecchi anni prima che il Coisp lanciasse la crociata per la libertà degli eroi della polizia con una grottesca messinscena a pochi metri dalle finestre di Patrizia Moretti, la madre del diciottenne ucciso. Uno dei segretari nazionali del Sap è di Ferrara e già a poche settimane dall’omicidio aveva dato prova di tutta la sua mancanza di umanità e di professionalità. Tutte le sigle sindacali locali, con l’eccezione del Silp, non hanno mai fatto mancare la loro vicinanza ai quattro uccisori di Federico.

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Ma solo il Sap è stato capace di una rivendicazione in piena regola: se Paolo Forlani, Luca Pollastri e Enzo Pontani sono state le star del congresso del Sap benché condannati in tre gradi di giudizio per l’omicidio (colposo), vuol dire che per centinaia, forse migliaia di agenti è giusto massacrare un cittadino inerme (e che non stava commettendo alcun reato) e sbagliato essere giudicati per questo.
Del tutto comprensibile e condivisibile il ribrezzo di Patrizia Moretti e Lino Aldrovandi. Scrive Lino: «Si puo’ dire il falso, si puo’ depistare, si puo’ uccidere senza una ragione, si puo” essere pregiudicati, e nonostante delinquenti, rimanere a libro paga di tanti cittadini onesti, e alla fine… essere anche applauditi per cinque minuti. Orribile, sopratutto per chi, per quella divisa ha dato la vita». «Provo ribrezzo per tutte quelle mani. Pansa era li?», si domanda Patrizia sul social network.

Pansa Alessandro, capo in testa della polizia, era lì.

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E’ andato ad annunciare – a proposito della legge sulla tortura in discussione al parlamento – che «la lettera della norma deve essere chiara e non deve dare adito ad interpretazioni estensive» [messaggio rivolto ai politici: quella legge l’ha dettata il Viminale], e poi [a uso e consumo delle telecamere] ha anticipato che sarà elaborato una sorta di decalogo sulle «regole di ingaggio», una serie di comportamenti standard, chiari e semplici, validi per le forze di polizia e per i cittadini in modo da evitare equivoci da un lato e abusi dall’altro e far sì che situazioni come quelle dello scorso 12 aprile a Roma, quando un funzionario delle forze dell’ordine calpestò una ragazza a terra, «non debbano più ripetersi». Pansa se n’era già andato da ore quando è scattata la standing ovation per i quattro galantuomini. Quel decalogo si annuncia già come un’ulteriore limitazione della libertà di movimento.

C’è da chiedersi come l’avrebbero presa i tutori dell’ordine iscritti a questo sindacato, il primo del comparto, se fosse stato un delitto perfetto anziché la miscela di cialtroneria, cattiveria, violenza, e connivenza che ha portato non solo alla condanna definitiva degli assassini ma anche alla condanna, finora in primo grado, di chi li ha aiutati nel depistaggio delle indagini.

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