Quando Francesco spiega che la proprietà privata non è intoccabile cita solo la dottrina della Chiesa

Le parole del Papa hanno fatto ripartire le accuse di comunismo. Ma San Gregorio Magno, Leone XIII, Palo VI e Wojtyla hanno detto le stesse cose

Papa Francesco
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Riccardo Cristiano Modifica articolo

1 Dicembre 2020 - 15.52


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Papa Francesco ha detto qualcosa di nuovo sulla proprietà privata? Vediamo: molti ancora in queste si accalorano a definirlo un papa comunista. Interessante. Cosa succede? Succede che il papa ha scritto nella sua sua enciclica “Fratelli tutti” e ripetuto recentemente : “Nei primi secoli della fede cristiana, diversi sapienti hanno sviluppato un senso universale nella loro riflessione sulla destinazione comune dei beni creati. Ciò conduceva a pensare che, se qualcuno non ha il necessario per vivere con dignità, è perché un altro se ne sta appropriando. Lo riassume San Giovanni Crisostomo dicendo che non dare ai poveri parte dei propri beni è rubare ai poveri, è privarli della loro stessa vita; e quanto possediamo non è nostro, ma loro. Come pure queste parole di San Gregorio Magno: «Quando distribuiamo agli indigenti qualunque cosa, non elargiamo roba nostra ma restituiamo loro ciò che ad essi appartiene». Di nuovo faccio mie e propongo a tutti alcune parole di San Giovanni Paolo II, la cui forza non è stata forse compresa: «Dio ha dato la terra a tutto il genere umano, perché essa sostenti tutti i suoi membri, senza escludere né privilegiare nessuno». In questa linea ricordo che la tradizione cristiana non ha mai riconosciuto come assoluto o intoccabile il diritto alla proprietà privata, e ha messo in risalto la funzione sociale di qualunque forma di proprietà privata. Il principio delluso comune dei beni creati per tutti è il primo principio di tutto lordinamento etico-sociale», è un diritto naturale, originario e prioritario. Tutti gli altri diritti sui beni necessari alla realizzazione integrale delle persone, inclusi quello della proprietà privata e qualunque altro, «non devono quindi intralciare, bensì, al contrario, facilitarne la realizzazione», come affermava San Paolo VI. Il diritto alla proprietà privata si può considerare solo come un diritto naturale secondario e derivato dal principio della destinazione universale dei beni creati, e ciò ha conseguenze molto concrete, che devono riflettersi sul funzionamento della società. Accade però frequentemente che i diritti secondari si pongono al di sopra di quelli prioritari e originari, privandoli di rilevanza pratica.”

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Eppure le voci si fanno assillanti e in un libro di imminente pubblicazione  il professor Rocco D’Ambrosio, docente all’Università Gregoriana, osserva quasi sconsolato: “ormai è un classico: tutte le volte che i pontefici parlano di limiti della proprietà privata diventano comunisti o socialisti o pauperisti e così via. Se alcuni, invece di criticare a vanvera, studiassero un poscoprirebbero che, almeno per i tempi moderni, si parla di ciò da Leone XIII in poi. Le citazioni sarebbero tantissime. Il succo del discorso è il seguente: la tradizione cristiana più volte, lungo i secoli, ha fatto riferimento alla destinazione universale dei beni. Si ricordano in modo particolare gli interventi dei pontefici nelle encicliche sociali, dove, prima di tutto si precisa che i beni sono per la persona umana. Essi servono per raggiungere il suo fine, cioè quello di svilupparsi e crescere armonicamente in tutte le sue facoltà. Da ciò deriva anche che i beni sono a servizio di tutti gli uomini; i credenti devono fare in modo che tutti gli uomini possano partecipare, usufruire e godere dei beni creati. Sulla base della tradizione si deve affermare che la destinazione universale dei beni è necessaria e perpetua, cioè è un comando di Dio valido sempre e per gli uomini di ogni lingua, etnia e cultura. La Chiesa afferma questo principio unitamente a quello della proprietà privata. Sembrerebbe che i due principi si oppongano lun laltro. Invece no. Nel momento in cui si conciliano questi principi, insieme a quello della carità e della giustizia, ci si accorge come non è lecito possedere tutto e sempre, ma è lecito possedere quello che serve allo sviluppo armonico della mia persona (e della mia famiglia) senza dimenticare gli altri, specie i poveri. «Qui non si tratta infatti di mettere in ristrettezza voi per sollevare gli altri – afferma san Paolo nel proporre la colletta per i poveri di Gerusalemme – ma di fare uguaglianza. Per il momento la vostra abbondanza supplisca alla loro indigenza…» (2 Cor. 8,13-14). Del resto, noi italiani dovremmo ricordare che nella nostra Costituzione si parla di una funzione sociale della proprietà” (art. 42): anche civilmente, quindi, il diritto alla proprietà non è assoluto.” 

Oggi però questa litania di attacchi sul comunismo di Bergoglio, che contemporaneamente è accusato dagli stessi critici di essere un peronista benché nessuno riesca a spiegare come le due cose possano stare insieme, meritano di essere spiegati. La prima spiegazione è evidentemente questa: Bergoglio è portatore di una nuova chiarezza evangelica, per questo non dice nulla di nuovo sulla dottrina sociale della Chiesa che è quella qui esposta al riguardo. La novità è che rispetto ai suoi predecessori non la sommerge con decine di dichiarazioni quotidiane sull’etica sessuale… E così anche i finti devoti sono  costretti a sentire quel che non vorrebbero e che in condizioni diverse nascondevano. 

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Ma ora tutti dovrebbero fare i conti con quel che emerge davvero di nuovo. Qualcosa di importantissimo. In un libro arrivato in libreria quest’oggi e che molti hanno già recensito, non si è detto che Bergoglio afferma testualmente: “ Dobbiamo andare oltre l’idea che che il lavoro di chi bada a un familiare, o di una madre a tempo pieno, o di un volontario in un progetto sociale che assiste centinaia di bambini, non sia un vero lavoro perché non riceve un salario. Una componente vitale del nostro ripensamento del mondo post-Covid sta nel riconoscere il valore, per la società, del lavoro, dei lavori non remunerati. Ecco perché credo che sia tempo di esplorare concetti comune la Retribuzione universale di base, nota anche come imposta negativa sul reddito: una retribuzione fissa e incondizionata a tutti i cittadini, che si potrebbe distribuire attraverso il sistema fiscale. La Retribuzione universale di base ridefinirebbe le relazioni nel mercato del lavoro, garantendo alle persone la dignità di rifiutare condizioni lavorative che le inchiodino alla povertà. Darebbe alle persone la sicurezza basilare di cui hanno bisogno, cancellerebbe lo stigma dell’assistenzialismo e renderebbe più facile passare da un impiego all’altro, come sempre più richiedono gli imperativi tecnologici nel mondo del lavoro. Politiche come quella della della Retribuzione universale di base aiutano le persone anche a combinare le attività remunerative con il tempo riservato alla comunità. Con lo stesso obiettivo, è forse giunto il momento di considerare una riduzione dell’orario di lavoro, con adeguamenti dei salari, che paradossalmente potrebbero accrescere la produttività. Quello che porta a lavorare di meno per consentire a più persone di accedere al mercato del lavoro è un aspetto che dobbiamo esplorare: farlo è piuttosto urgente.” 

Dal punto di vista dei principi che ispirano la dottrina sociale della Chiesa non ci sono novità, ma davanti a un mondo che osserva la pandemia pensando che sia possibile salvarsi da soli, che non è possibile, scoprire che c’è qualcuno che ci chiede di tornare a pensare come comunità di persone consapevoli che solo insieme potremo salvarci aiuta a sperare che forse potremo riuscirci, davvero. L’importante, come dice il titolo di questo libro, è “ritornare a sognare”. I sogni possono diventare realtà, se si vuole, lo dimostra la storia dell’umanità. 

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