Adesso i sovranisti tentano l'opa per impossessarsi di Giovanni Paolo II
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Adesso i sovranisti tentano l'opa per impossessarsi di Giovanni Paolo II

Salvini, Meloni, Orbàn, un’autorevole esponente del Front National sono le star dell'incontro “Dio, onore, nazione: il Presidente Ronald Reagan, Papa Giovanni Paolo II e la libertà delle nazioni".

Giovanni Paolo II e Ronald Reagan
Giovanni Paolo II e Ronald Reagan
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Riccardo Cristiano Modifica articolo

22 Gennaio 2020 - 16.41


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L’internazionale sovranista ci riprova. Quella che per molti era l’ossessione soltanto di Steve Bannon cerca di materializzarsi. Dunque The Movement non è morto, tutt’altro. Sembra questo il senso dell’iniziativa che avrà luogo il 3 e 4 febbraio prossimi, mettendo insieme Matteo Salvini, Giorgia Meloni, Viktor Orbàn, un’autorevole esponente del Front National di Marine Le Pen, Marion Marechal, nipote della first lady del Front, l’ex presidente dell’American Entrerprise Institute, Christopher DeMuth e Newt Gingrich, il vero stratega del trumpismo, vicinissimo oggi, non un tempo, al presidente americano. Saranno loro le star dell’incontro romano intitolato “Dio, onore, nazione: il Presidente Ronald Reagan, Papa Giovanni Paolo II e la libertà delle nazioni”.
E’ appena passato il trentesimo anniversario della caduta del Berlino e con ogni probabilità i promotori dell’incontro romano intendono celebrare la vittoria reaganiana, il crollo dell’impero sovietico. Di qui l’idea di associare a Ronald Reagan il papa polacco, San Giovanni Paolo II. Che al crollo dell’impero sovietico lui abbia dato un contributo decisivo non c’è ombra di dubbio, che ritenesse completata l’opera di liberazione, che non ritenesse da superare anche un certo capitalismo, come lasciano intendere gli organizzatori del simposio romano, no. Infatti subito dopo l’abbattimento del muro, il 13 novembre del 1989, disse durante la sua visita in Germania: “La situazione del mondo di oggi può diventare una nuova occasione per la fede. Questo non solamente perché l’ideologia marxista oggi si è chiaramente esaurita. Anche le ideologie consumistiche dell’Occidente sono sempre di più scoperte dai giovani, i quali esigono promesse più profonde.” Non sembra questa l’idea dei promotori. In particolare la teologia della prosperità tanto caro a cattolici americani così attivi nella creazione di questo campo è lontanissima dal pensiero di Karol Wojtyla. La teologia del benessere, riassunta un po’ superficialmente, ma neanche tanto, sostiene che Dio è l’artefice del nostro benessere. Ma allora se stiamo male, o siamo poveri, vuol dire che qualcosa con Dio non va.
Sul “vangelo della prosperità”, un vangelo tutto nuovo, hanno pubblicato un saggio importantissimo il direttore de La Civiltà Cattolica, padre Antonio Spadaro, e il direttore dell’Osservatore Romano edizione Argentina, il pastore Marcelo Figueroa, scrivendo: “ Se cerchiamo le origini di queste correnti teologiche, le troviamo negli Stati Uniti, dove la maggioranza dei ricercatori della fenomenologia religiosa americana le fanno risalire al pastore newyorchese Esek William Kenyon (1867-1948). Egli sosteneva che attraverso il potere della fede si possono modificare le concrete realtà materiali. Ma la diretta conclusione di questa convinzione è che la fede può condurre alla ricchezza, alla salute e al benessere, mentre la mancanza di fede porta alla povertà, alla malattia e all’infelicità. Le origini della «teologia della prosperità» sono in realtà complesse, ma qui proponiamo le radici più significative, rinviando a volumi e saggi specialistici per approfondimenti. La teologa Kate Ward, ad esempio, ha scritto sull’influenza di Adam Smith, specialmente della sua «teoria dei sentimenti morali». La Ward, in questo senso, mostra come la compassione, per Smith, non riguarda i poveri, ma l’ammirazione di coloro che hanno avuto una storia di successo.”
Che l’occasione di celebrare il trentesimo della caduta del muro sia ghiotta per i sovranisti è evidente, ma il tentativo di associare alla loro visione Giovanni Paolo II dà l’idea di un uso strumentale. Che non si tratti di un convegno di studi ma di un congresso politico lo confermano le qualità politiche, indiscutibili, dei relatori. Qualità indiscutibili, visto il successo che ottengono nei loro paesi, ma anche qualità chiare. Come è chiara la loro scarsa sintonia con il pensiero “giovannipaolino”. Pensiamo all’American Enterprise Institute, vero promotore dell’invasione dell’Iraq nel 2003, e Giovanni Paolo II. Non si tratta solo di ricordare, come è a tutti noto, che in quell’occasione Giovanni Paolo si oppose all’invasione sostenuta dall’Istituto. Si tratta di ricordare che in quell’occasione, il il 16 marzo del 2003, all’Angelus, proprio Giovanni Paolo II disse: «Io appartengo a quella generazione che ha vissuto la seconda Guerra Mondiale ed è sopravvissuta. Ho il dovere di dire a tutti i giovani, a quelli più giovani di me, che non hanno avuto quest’esperienza: “Mai più la guerra!”, come disse Paolo VI nella sua prima visita alle Nazioni Unite. Dobbiamo fare tutto il possibile! Sappiamo bene che non è possibile la pace ad ogni costo. Ma sappiamo tutti quanto è grande questa responsabilità. E quindi preghiera e penitenza!»
Parlare di Giovanni Paolo e la politica migratoria, soprattutto in funzione islamica qui in Europa, ma non solo, richiederebbe infatti di parlare del famoso spirito di Assisi, cioè lo spirito di dialogo e amicizia tra tutte le religioni del mondo che proprio Giovanni Paolo II promosse con la grande preghiera di Assisi. Ha scritto il professor Andrea Riccardi, amico personale e principale biografo di Karol Wojtyla: “Giovanni Paolo II crede che la Chiesa cattolica abbia una missione per far vivere insieme mondi differenti. Questa visione ha avuto la sua massima esplicitazione nella giornata del 27 ottobre 1986, tenuta sotto il segno francescano e irenico di Assisi.”
Il segno francescano nell’incontro di cui parliamo non si scorge. Anzi, la scelta della data del simposio, 3 e 4 febbraio, appare esplicitare un obiettivo: contrapporre Giovanni Paolo II a Francesco, il papa dell’accoglienza, dell’integrazione, della fratellanza. Come se quello fosse stato il papa dei nazionalisti, questo il papa del dialogo con il “pericolo islam”. Infatti il 4 febbraio, guarda caso, è l’anniversario della firma, ad Abu Dhabi, del documento per la fratellanza universale. Un documento sul quale ha scritto il presidente del World Yewish Congress, Ronald S. Lauder: “In primo luogo, dobbiamo contrastare l’odio. Il razzismo è assolutamente inaccettabile. Dobbiamo sradicarlo. L’antisemitismo è assolutamente inaccettabile. Dobbiamo eliminarlo. L’islamofobia è assolutamente inaccettabile. Dobbiamo cancellarla. Gli attacchi contro le comunità e i fedeli cristiani sono assolutamente inaccettabili. Dobbiamo fermarli – ed evitare che si verifichino di nuovo. Ma la campagna contro il razzismo, l’antisemitismo, l’islamofobia e gli attacchi anti-cristiani sarà molto, molto più efficace se restiamo uniti. I cristiani dovrebbero difendere ebrei e musulmani. I musulmani dovrebbero difendere ebrei e cristiani. Gli ebrei dovrebbero difendere musulmani e cristiani. E tutti, insieme, dobbiamo opporci al razzismo. Gli orribili episodi di Christchurch, della Nuova Zelanda, dello Sri Lanka e di Pittsburgh devono servirci come avvertimenti. Questi impongono a tutti noi di accettare la sfida di unirci e di dare il massimo per vincere la battaglia contro l’odio. In secondo luogo, dobbiamo salvaguardare la libertà di culto.”
Certo, l’idea di contrapporre Giovanni Paolo II e Francesco appare un’idea a dir poco spericolata: la storia di un lunghissimo pontificato lo testimonia. Ma l’ostilità di tanti relatori verso Francesco legittima il sospetto. Il tentativo potrebbe aiutare, e molto, i fautori di questa alleanza mondiale. Qualcuno potrebbe avergli fatto pensare che un’Alleanza è forte, ma se diventa una Santa Alleanza lo è ancora di più. Farlo con benedicendo il “papa polacco” darebbe a molti l’impressione di una reciprocità e aiuterebbe i tanti cattolici tentati, offrendo loro uno scudo di valore. Certo, l’assenza di ecclesiastici conforta, ma resta il fatto che Giovanni Paolo II in questo simposio non sembra stare a suo agio. Lui definì frutto del mysterium iniquitatis il sacco di Costantinopoli da parte dei crociati nel 1204. Era il maggio 2001 e lo scandì ad Atene, dove il ricordo di quel saccheggio è ancora vivo. Quel pensiero che molti chiamano neo-crociato e che sembra far capolino dietro la promozione del congresso romano farebbe bene a ricordarlo.

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