Oggi Kurt Cobain avrebbe compiuto 52 anni. Il leader dei Nirvana, figli del più puro grunge di Seattle, suicidatosi nell’aprile del 1994, avrebbe festeggiato oggi. O forse no. Se ne sarebbe fregato dell’ennesimo compleanno. Lui, che con la vita ha sempre litigato. Anti rock, anti fama. Anti tutto. Non assumeva droghe perché così facevano le star. Lo faceva per abbattere il dolore delle sue ulcere.
Un’esistenza combattuta tra frustrazioni, insoddisfazioni, che comunque al mondo e ai milioni di fan ha regalato perle musicali che hanno fatto la storia. La musica. L’unica cosa che a lui interessasse. Tutto il resto, il rumore di sottofondo gli dava fastidio o non lo interessava.
In Serve the servants, una delle canzoni guida dell’album In utero, aveva già espresso la sua insofferenza per i riflettori sempre puntati addosso: “La rabbia giovanile ha pagato bene / ora mi annoio e sono vecchio”.
Nei mesi che hanno preceduto il suicidio aveva mandato segnali di profondo malessere: voleva dare a In utero un titolo impossibile da equivocare come I hate myself and I want to die e si era fatto anche fotografare con un pistola in bocca. Il suo disagio di antistar si percepiva in ogni istante.
Quindi, oggi probabilmente, se ne sarebbe fregato del mondo intento a festeggiare il suo mezzo secolo di vita, così come del famoso club dei 27. Ma il mondo, dal canto suo, non può smettere di ricordarlo. Di ricordare un giovane di talento di Seattle che per sempre ha rivoluzionato la scena musicale negli anni ’90.