Regeni, c'è un giudice a Roma: vuole ascoltare Meloni e Tajani sulle "rassicurazioni" di al-Sisi

Giorgia Meloni e Antonio Tajani saranno sentiti il prossimo 3 aprile dal giudice per l’udienza preliminare di Roma. I due dovranno riferire in merito alla disponibilità a collaborare con le autorità italiane espressa dal presidente egiziano al-Sisi

Regeni, c'è un giudice a Roma: vuole ascoltare Meloni e Tajani sulle "rassicurazioni" di al-Sisi
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

13 Febbraio 2023 - 18.45


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C’è un giudice a Roma. Che vuole vederci chiaro su alcune affermazioni della presidente del Consiglio e  del ministro degli Esteri sul caso Regeni. Giorgia Meloni e Antonio Tajani saranno sentiti il prossimo 3 aprile dal giudice per l’udienza preliminare di Roma. I due dovranno riferire in merito alla disponibilità a collaborare con le autorità italiane espressa dal presidente egiziano al-Sisi nelle scorse settimane. Lo scorso novembre la presidente del Consiglio era stata in Egitto per Cop 27 e aveva avuto un colloquio con il presidente egiziano in cui si era parlato dei casi Regeni e Zaki.

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La richiesta di sentire come testi Meloni e Tajani è stata avanzata dal legale dei genitori di Regeni, Alessandra Ballerini. Regeni fu trovato senza vita al Cairo nel febbraio del 2016. Sequestrato e torturato: reati per cui sono imputati quattro 007 egiziani a cui non è stato possibile notificare gli atti del processo. A piazzale Clodio, sede del Tribunale di Roma, anche oggi c’è un sit in a sostegno dei familiari: presenti anche gli attori Valerio Mastandrea e Pif. “Ognuno vive come vuole propria popolarità, crediamo che bisogna prendere posizione sempre” hanno detto i due artisti. “Siamo stati accanto alla famiglia Regeni sin dal primo giorno e oggi siamo qui per farli sentire meno soli”, hanno aggiunto. Fuori la cittadella giudiziaria anche i rappresentanti della Fnsi.

Nei giorni scorsi erano state depositate le motivazioni della sentenza della Cassazione con cui il 15 luglio era stato respinto il ricorso della Procura di Roma contro la decisione del gup che aveva stabilito la sospensione del procedimento disponendo nuove ricerche degli imputati a cui notificare gli atti. “Il perseguimento delle condotte criminose, anche se efferate e ignominiose quali quelle oggetto di imputazione” in uno Stato di diritto deve passare “attraverso il rispetto delle regole del giusto processo” nel pieno ed effettivo contraddittorio. È immune da “vizi logici e giuridici”, scrive la prima sezione Penale Corte Suprema, la valutazione secondo la quale “le qualifiche soggettive degli imputati all’interno delle forze di polizia o degli apparati di sicurezza egiziani, la partecipazione di alcuni di essi al team egiziano incaricato di collaborare con gli inquirenti italiani nel caso Regeni, il fatto che alcuni di loro siano stati in quella sede sentiti quali persone informate dei fatti circa le indagini svolte in Egitto, e la rilevanza mediatica, anche internazionale, del processo italiano, non sono concludenti al fine di ritenere raggiunta la certezza della conoscenza da parte degli imputati del processo a loro carico”.

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La Cassazione, scrivono i giudici, non trascura il diritto dei genitori di Giulio, Paola Deffendi e Claudio Regeni, all’accertamento dei fatti. Ma, sottolineano, la giustizia italiana è tenuta “ad applicare senza strappi il tessuto normativo, garantista e rispettoso dei diritti di tutte le parti processuali”. Il superamento della situazione che impedisce la partecipazione degli imputati al processo – si legge nelle motivazioni – “appartiene alle competenti autorità di governo, anche alla luce degli obblighi di assistenza e cooperazione” che discendono dalle Convenzioni internazionali. La sentenza della Prima sezione penale cita la Convenzione contro la tortura e altri trattamenti o punizione crudeli, inumani o degradanti di New York, ratificata con legge dall’Italia nel 1988 e dall’Egitto nel 1986. I pm di piazzale Clodio chiedevano di uscire dalla “stasi processuale” che portò il processo ad uno brusco stop.

Un articolo da incorniciare.

E’ quello di Vladimiro Zagrebelsky, già presidente della Corte costituzionale nel 2004. Nel campo del diritto, un’autorità assoluta. Scrive il professor Zagrebelsky su La Stampa: “Al rientro dalla sua visita al governo egiziano, il ministro degli Esteri Tajani si è detto rassicurato dal presidente al-Sisi sulla disponibilità a collaborare alle indagini sulle torture e sull’uccisione di Giulio Regeni nel gennaio 2016. Sono passati sei anni e la collaborazione non c’è mai stata. Ci sono invece stati sviamenti e rifiuti, fino a che la Procura generale egiziana ha dichiarato che non c’è più nulla da fare per identificare i responsabili e che il procedimento in corso in Italia è privo di basi. Le indagini in Italia si sono svolte tra enormi difficoltà, ma hanno portato comunque la Procura della Repubblica di Roma a identificare alcuni funzionari di uno dei Servizi di sicurezza egiziani, che sono stati rinviati a giudizio davanti alla Corte d’Assise. Ma il processo non ha potuto aver luogo perché non è stato possibile notificare l’atto di accusa agli imputati in Egitto, con la data e luogo dell’udienza e gli avvisi stabiliti dalla legge. Una impossibilità che deriva dall’ostruzionismo delle autorità egiziane, insuperabile da parte italiana. Ora la Corte di cassazione ha confermato che senza quelle notificazioni agli imputati non è possibile in Italia procedere al giudizio, che deve svolgersi secondo le regole del giusto processo stabilite dalla legge in uno Stato di diritto. Poiché le rassicurazioni di cui il ministro degli Esteri si è fatto portavoce non hanno alcuna credibilità, è molto probabile che quel processo, “che non s’ha da fare”, effettivamente non si faccia mai. 

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Vi sono in Italia i genitori di Giulio Regeni che fin da subito si battono perché la verità venga accertata in giudizio. Vi è anche un generale diritto alla verità, che è stato riconosciuto a livello internazionale, in casi gravi come quello di cui Regeni è stato vittima. Il governo italiano è tenuto a proteggere i propri cittadini all’estero, cosicché oggi è obbligato ad agire perché i responsabili siano identificati e puniti. L’uccisione di Regeni mentre era nelle mani dei Servizi di sicurezza egiziani e il rifiuto delle autorità egiziane di collaborare con quelle italiane sono causa di responsabilità verso l’Italia. Poiché è ora di smettere di far finta di credere alle rassicurazioni egiziane, spetta al governo italiano ricorrere alle istanze internazionali competenti: in questo caso la Corte internazionale di giustizia. Dal 2016 si sono succeduti i governi Renzi, Gentiloni, Conte I, Conte II, Draghi e ora, da poco, il governo Meloni. L’Italia con tutti i suoi governi ha ricevuto assicurazioni, seguite dalla umiliazione del rifiuto di collaborazione. Si tratta di un diritto stabilito dalle Convenzioni internazionali che legano sia l’Italia che l’Egitto. Anche il Parlamento europeo è intervenuto denunciando le prassi egiziane e sollecitando sanzioni contro i funzionari egiziani responsabili. Ma la responsabilità primaria è dell’Italia. Il conflitto è palesemente ormai tra Stati. Purtroppo, dopo la dichiarazione sopra riportata della Procura generale egiziana, il ministero degli Esteri ha dimostrato la volontà di sottrarsi al conflitto, riportando il contrasto al livello delle due magistrature. Ma ora non è più possibile farlo, continuando a perdere tempo e a illudere, forse, i genitori di Regeni e l’opinione pubblica italiana (ed anche indebolendo la credibilità internazionale dello Stato). 

Da tempo la via da imboccare è stata identificata e segnalata. Ne ho dato conto in un articolo su questo giornale del 3 gennaio 2021, due anni orsono. Ne ha indicato la necessità la Commissione parlamentare di inchiesta sulla morte di Regeni nella unanime sua relazione finale del 1° dicembre 2021. Nello stesso senso si è espressa la Società italiana di diritto internazionale. Ora la Corte di cassazione scrive che la soluzione dello stallo cui si è giunti non è risolubile a livello giudiziario; incombe invece sul governo anche alla luce degli obblighi di assistenza e cooperazione discendenti dalle Convenzioni internazionali, come quella contro la tortura del 1984, ratificata dall’Italia nel 1988 e dall’Egitto nel 1984. Cosa ci vuole di più perché il governo accetti la realtà di un conflitto tra Stati? Con la Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura gli Stati si sono impegnati ad impedire che atti di tortura siano commessi nel proprio territorio; essi si sono anche obbligati e svolgere indagini efficaci e indipendenti e darsi la più ampia assistenza giudiziaria in qualsiasi procedimento penale relativo alla tortura, comunicandosi tutti gli elementi di prova. È ormai sicura la violazione di quegli obblighi internazionali da parte dell’Egitto. Il governo italiano dovrebbe attivare subito gli strumenti previsti dalla Convenzione contro la tortura. Essa prevede che una controversia sulla sua interpretazione o applicazione, non risolvibile tramite negoziazione, sia sottoposta ad arbitrato. Se le parti non giungono ad un accordo sull’organizzazione dell’arbitrato, ciascuna di esse può sottoporre la controversia alla Corte Internazionale di Giustizia. Si tratta della Corte delle Nazioni Unite che decide le controversie internazionali. Qui non c’è soltanto da far valere la ragione italiana in un caso di omicidio e tortura di cui è stato vittima un suo cittadino. La tortura è un crimine contro l’umanità. La comunità internazionale, a partire dalla Dichiarazione universale dei diritti umani del 1948, ha preso su di sé l’onere di far tutto il possibile per prevenire, far cessare e reprimere ogni fatto di tortura. Il governo italiano, membro della comunità internazionale, attivando i meccanismi della Convenzione contro la tortura, può dimostrare che essa esprime un impegno serio. 

I rapporti economici e politici tra Italia ed Egitto (gas, forniture militari, contrasto al terrorismo, migranti, Libia) sono molto importanti. È questo che spiega la ritrosia del governo italiano? Recentemente, per assicurarsi le necessarie forniture di energia, l’Italia ha sottoscritto accordi con alcuni Paesi più che problematici sul piano del rispetto dei diritti fondamentali. Se l’Italia con l’Egitto si dimostra debole e rassegnata, la sicurezza dei suoi cittadini anche in quei Paesi è messa a rischio. Non dovrebbe passare l’idea che “con l’Italia si può fare”.

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Desaparecidos. Ecco con chi facciamo affari.

Nell’Egitto di al-Sisi i “desaparecidos” si contano ormai a migliaia. E più della metà dei detenuti nelle carceri lo sono per motivi politici. Per contenerli, il governo ha dovuto costruire 19 nuove strutture carcerarie. Il generale-presidente esercita un potere che si ramifica in tutta la società attraverso l’esercito, la polizia, le bande paramilitari e i servizi segreti, i famigerati Mukhabarat, quasi sempre più di uno. Al-Sisi si pone all’apice di un triangolo, quello dello Stato-ombra: esercito, Ministero degli Interni (e l’Nsa, la National Security Agenc.) e Gis (General Intelligence Service, i servizi segreti esterni).   Se lo standard di sicurezza si misurasse sul numero degli oppositori incarcerati, l’Egitto di al-Sisi I° sarebbe tra i Paesi più sicuri al mondo: recenti rapporti delle più autorevoli organizzazioni internazionali per i diritti umani, da Human Rights Watch ad Amnesty International, calcolano in oltre  60mila i detenuti politici (un numero pari all’intera popolazione carceraria italiana): membri dei fuorilegge Fratelli musulmani, ma anche blogger, attivisti per i diritti umani, avvocati…Tutti accusati di attentare alla sicurezza dello Stato. Lo Stato di polizia all’ombra delle Piramidi. 

Ho chiesto e ricevuto rassicurazioni per forte collaborazione sui casi RegenieZaki”. Così il ministro degli Esteri Antonio Tajani in un tweet successivo all’incontro che il titolare della Farnesina ha avuto al Cairo con il presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi.

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La farsa si ripete

Rassicurazioni. Forte collaborazione. Signor ministro, ma di cosa parla? Lei sa bene, e se ha bisogno di rinfrescarsi la memoria ci sono tomi di articoli, inchieste, rapporti e, soprattutto, atti giudiziari che testimoniano il pervicace atteggiamento tenuto dalle autorità egiziane nel boicottare qualsiasi tentativo di fare piena luce, individuando mandanti ed esecutori, sul rapimento e il brutale assassinio di Giulio Regeni. A parziale scusante di Tajani c’è che le stesse parole – rassicurazioni, collaborazione – erano state utilizzate dai suoi predecessori alla Farnesina. In primis Luigi Di Maio. 

D’altro canto, prima del ministro degli Esteri era stata la presidente del Consiglio ad omaggiare il generale-carceriere d’Egitto. 

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 “Ringrazio il Presidente al-Sisi per aver augurato buon lavoro al governo italiano – aveva scritto Giorgia Meloni su Twitter alla vigilia della sua partecipazione al summit Cop27 a Sherm el Sheikh –  .Abbiamo a cuore la stabilità del Mediterraneo e del Medio Oriente e siamo determinati a rafforzare la nostra cooperazione bilaterale su questioni cruciali come la sicurezza energetica, l’ambiente, i diritti umani“. La premier, quindi, non ha dimenticato nel suo messaggio di ricordare l’importanza della salvaguardia dei diritti umani, un tema a dir poco sensibile al Cairo, dove decine di migliaia di persone sono state incarcerate dalla presa del potere del generale, mentre altre sono state torturate o costrette a fuggire. È proprio questo il punto dal quale parte la raccolta firme lanciata da Transform Italia per il boicottaggio dell’evento da parte del governo di Roma. Nel testo, firmato anche dall’avvocata della famiglia Regeni, Alessandra Ballerini, si legge infatti che anche i summit precedenti “sono stati solo operazioni di greenwashing che non hanno impedito la crescita delle emissioni, in questo caso siamo di fronte all’apoteosi dell’ipocrisia, una riverniciatura di verde di un regime militare che nega le più elementari libertà democratiche fondamentali e i diritti umani. Nell’Egitto di al-Sisi la repressione è sistematica e durissima. Non si può discutere di clima con chi detiene 60mila prigionieri politici rinchiusi nelle carceri mentre il blogger Alaa Abd El-Fattah ha superato i 200 giorni di sciopero della fame. L’opinione pubblica italiana ben conosce quanto accade in Egitto, dopo l’assassinio del nostro giovane connazionale Giulio Regeni e la detenzione di Patrick Zaki. Riteniamo che l’Italia non possa partecipare alla Cop27 in Egitto dato che il governo di quel Paese ha dimostrato di non avere alcuna volontà di cooperare e collaborare affinché emerga la verità sulla morte di Giulio Regeni e venga fatta giustizia”.

Come sono andate le cose, è cronaca. Meloni ha partecipato al summit con tanto di sorrisi, strette di mano e apprezzamenti per l’operato di al-Sisi. 

E costui dovrebbe aiutarci a fare piena luce sul rapimento e la brutale uccisione di Giulio Regeni, consegnando alla giustizia italiana i suoi aguzzini e i mandanti di un assassinio di Stato? E di grazia quali “rassicurazioni” avranno avuto la presidente Meloni e il ministro Tajani? Un giudice vuol saperlo. E noi con lui. 

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