Libia: avvertimento all'Eni mentre le milizie impunite dettano legge

 Il governo libico del premier nominato dal Parlamento, Fathi Bashagha, ha messo "in guardia" Eni dall'attuare una proposta di aumento della propria quota nella joint-venture paritetica libica 'Mellitah Oil & Gas Bv' con la Compagnia petrolifera nazionale

Libia: avvertimento all'Eni mentre le milizie impunite dettano legge
Milizie libiche
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

20 Dicembre 2022 - 14.18


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L’avvertimento tutt’altro che amichevole all’Eni. La denuncia di Amnesty International. E una testimonianza illuminante di ciò che è l’inferno libico dal quale migliaia di persone cercano di fuggire anche a costo della loro vita. 

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Tre indizi fanno una prova. La prova , l’ennesima, del caos libico. Un caos senza fine.

Avvertimento all’Eni

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 Il governo libico del premier nominato dal Parlamento, Fathi Bashagha, ha messo “in guardia” Eni dall’attuare una proposta di aumento della propria quota nella joint-venture paritetica libica ‘Mellitah Oil & Gas Bv’ con la Compagnia petrolifera nazionale (Noc). In un comunicato inviato all’Ansa, l’esecutivo basato a Sirte e appoggiato dall’Esercito nazionale libico (Lna) di cui Khalifa Haftar è comandante generale ha annunciato “procedimenti penali” contro chiunque sia coinvolto nell’attuazione di accordi con l'”Energy Council” istituito dal “governo uscente” di Tripoli del premier Abdel Hamid Dbeibah, sfruttando quindi “opportunisticamente” l’attuale divisione politica della Libia. 

Il rapporto di Amnesty

In un rapporto pubblicato ieri, Amnesty International ha accusato il gruppo armato Tariq Ben Zeyad (Tbz) di aver commesso, dal 2017 al 2022, crimini di guerra e altri crimini di diritto internazionale contro migliaia di presunti o reali critici e oppositori delle Forze armate arabe libiche (Faal), l’autorità di fatto che da Bengasi controlla ampie parti della Libia.

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Il Tbz è guidato da Saddam Haftar, figlio del generale Khalifa Haftar, comandante delle Faal. Il vice di Saddam Haftar è Omar Imraj. È uno dei gruppi armati più influenti tra quelli che operano alle dipendenze delle Faal ed è composto da soldati di carriera che combatterono nel 2011 accanto a Mu’ammar Gheddafi e da combattenti provenienti dalle tribù alleate alle Faal.

“Emerso nel 2016, il Tbz ha seminato il terrore nelle zone controllate dalle Faal attraverso un catalogo di orrori: omicidi illegali, maltrattamenti e torture, sparizioni forzate, stupri e altre forme di violenza sessuale, sfollamenti forzati, senza timore di subire conseguenze, ha dichiarato Hussein Baoumi, ricercatore di Amnesty International su Libia ed Egitto.

“È ampiamente giunto il momento di un’indagine sulle responsabilità di comando di Saddam Haftar e Omar Imraj. Chiediamo che siano rimossi immediatamente da posizioni nelle quali potrebbero commettere ulteriori violazioni dei diritti umani o dalle quali potrebbero interferire nelle indagini. Chiediamo anche alla Faal di chiudere tutti i centri non ufficiali di detenzione gestiti dal Tbz e scarcerare le persone che vi si trovano detenute arbitrariamente”, ha aggiunto Baoumi.

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Tra febbraio e settembre del 2022 Amnesty International ha intervistato 38 persone che risiedono o risiedevano in aree della Libia controllate dalle Faal, sia in presenza che da remoto, tra le quali ex detenuti, sfollati interni, comandanti militari e combattenti. L’organizzazione per i diritti umani ha anche esaminato dichiarazioni ufficiali e prove audiovisuali a carico del Tbz.

Il 3 ottobre Amnesty International ha inviato le sue conclusioni al Governo di unità nazionale, all’ufficio del procuratore generale e al comandante delle Faal senza ricevere finora alcuna risposta.

Sequestri, uccisioni illegali e torture

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Amnesty International è risalita ai nomi di 25 persone che, dal 2017 al 2022, sono state arrestate arbitrariamente e sottoposte a sparizione forzata da parte del Tbz a causa delle loro idee politiche o per motivi di affiliazione tribale, familiare o regionale.

Tre degli scomparsi sono stati poi ritrovati morti, ai bordi delle strade o negli obitori di Bengasi, con segni di torture o di ferite da arma da fuoco. Quattro persone risultano ancora scomparse, tre restano in stato di detenzione e 15 sono state scarcerate dopo aver trascorso anche cinque anni senza accusa né processo, in alcuni casi dopo aver pagato riscatti esorbitanti. Tutte le persone tornate in libertà hanno denunciato di essere state sottoposte a torture quali pestaggi o frustate o di essere state tenute appese in posizioni contorte.

Due ex detenuti, intervistati in tempi diversi, hanno dichiarato di aver assistito alla morte di almeno cinque prigionieri, tra il 2017 e il 2021, a causa delle torture o per diniego di cure mediche nei centri di detenzione controllati dal Tbz.

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Sfollamenti forzati ed espulsioni

Dalla fine del 2021 il Tbz ha costretto a sfollare migliaia di migranti e rifugiati da Sabha e dintorni. Amnesty International ha visionato una serie di post e una pagina Facebook di un membro del Tbz in cui si vedevano migranti e rifugiati fatti salire su camion diretti verso il confine del Niger, per ripulire la Libia dai migranti clandestini”.

Il Tbz ha preso parte anche allo sfollamento forzato di migliaia di famiglie libiche durante le operazioni militari condotte tra il 2014 e il 2019 dalle Faal per prendere possesso delle città di Bengasi e Derna.

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Le responsabilità di comando

Secondo le prove raccolte da Amnesty International, Saddam Haftar e Omar Imraj erano a conoscenza o avrebbero dovuto essere a conoscenza dei crimini commessi dai loro sottoposti ma non hanno fatto nulla per impedirli né per punirne i responsabili.

Ex detenuti hanno riferito che Omar Imraj visitava regolarmente il centro di detenzione di Sidi Faraj, a est di Bengazi, soffermandosi a parlare con prigionieri che mostravano chiari segni di tortura. Altri ex detenuti hanno dichiarato di essere stati minacciati da Saddam Haftar, sia prima che dopo la scarcerazione, di rimanere o ritornare in carcere.

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Puoi scegliere: o lavorerai con noi o vivrai come un animale che mangia e dorme senza speranze, sogni o ambizioni”: è la minaccia che Saddam Haftar ha rivolto a un attivista sottoposto a sparizione forzata e torture per mesi prima di essere rilasciato.

Diversi familiari di ex prigionieri hanno testimoniato di aver supplicato direttamente Saddam Haftar e Omar Imraj affinché scarcerassero i loro cari.

“Se la comunità internazionale non muterà il suo approccio rispetto alla Libia, dando finalmente priorità ai diritti umani rispetto a interessi politici di corto respiro, innumerevoli altre persone alla mercè del Tbz rischieranno di essere sequestrate, torturate, fatte sparire o uccise. Chiediamo a tutti gli stati di esercitare la giurisdizione universale per indagare su sospetti crimini commessi da comandanti e membri del Tbz e, quando vi saranno prove sufficienti, di emettere mandati di cattura nei loro confronti e cercare di processarli”, ha conclusi Baoumi.

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Testimonianza dall’inferno. Una storia di dolore e di lotta.

“David Yambio è un rifugiato sudsudanese di 26 anni arrivato in Italia dopo diversi anni trascorsi in Libia e diversi tentativi di fuga. Yambio è riuscito a fuggire dopo essere stato riconosciuto come l’organizzatore di Refugees in Lybia,un movimento di protesta che ha portato avanti un sit-in di cento giorni a Tripoli sotto la sede di Unhcr per denunciare le condizioni di vita dei migranti e le responsabilità del governo libico e dei governi europei nel finanziare le autorità e milizie.

Melting Pot ha raccolto la sua testimonianza durante l’incontro “Oltre e contro i confini” che si è svolto a inizio novembre a Trento al Centro sociale Bruno nel quale, insieme alle attiviste del Collettivo Rotte Balcaniche Alto Vicentino, ha parlato di lotte e solidarietà. Ringraziamo Rachele Melorio per la traduzione. 

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Ciao David, puoi raccontarci come è nata la tua lotta personale e come poi questa è diventata una lotta collettiva?

Voglio iniziare dicendo che ci sono dei fattori di spinta e dei fattori di attrazione che determinano le migrazioni. Prima di tutto le migrazioni forzate sono dovute a varie dimensioni, dal cambiamento climatico, alla povertà fino alle persecuzioni. L’obiettivo per le persone che si spostano è quello di trovare libertà, di trovare un lavoro giustamente retribuito e di poter avere un’educazione adeguata che sia in Germania, in USA o nel Regno Unito. Queste cose che ho appena detto rendono evidente che le migrazioni sono qualcosa del tutto naturale che non potranno mai fermarsi, le persone continueranno a spostarsi e a migrare. 

Non ho scelto io dove nascere e dove vivere. Il Sudan è un paese in guerra da 30 anni e infatti, in questo momento, è diviso in due. Sono nato nel 1997 e la mia famiglia quando avevo soltanto 2 mesi è dovuta scappare prima in Congo, poi in Repubblica Centrafricana, e infine sono tornati in Sudan perché casa è sempre casa. Ma poi siamo dovuti andare via di nuovo e ora sono ancora alla ricerca di un un posto dove poter avere una vita dignitosa, un luogo dove mi sia permesso studiare e lavorare. 

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Quando la mia famiglia è tornata nel 2005 in Sud Sudan ero piccolo e all’età di soli 13 anni il governo mi ha chiesto di arruolarmi nell’esercito. Nella mia infanzia non mi è stato permesso di sognare, di studiare e di vivere da bambino, e non mi è stato permesso di vedere rispettati i diritti umani basilari. E questa è la storia che contraddistingue la vita di milioni di persone. 

Nel 2011 il Sudan è stato diviso in 2 paesi e nel 2013 è scoppiata di nuovo la guerra. Mi è stato chiesto nuovamente di arruolarmi nell’esercito. Avevo 18 anni, quasi 19, e ho deciso che non potevo uccidere i miei fratelli e le mie sorelle e di conseguenza ho deciso di andare via e diventare un rifugiato.  

Diventando rifugiato ho perso la mia casa, la mia famiglia e il mio paese ma dovevo andarmene e trovare un posto sicuro. Prima sono andato in Nord Sudan, ma non ho trovato il mio rifugio e quindi sono stato in Ciad per 2 anni e mezzo. 

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Non posso dire se il Ciad si tratti di un paese sicuro o no, in un paese sicuro dovrebbero essere garantiti tutta una serie di diritti fondamentali. Il Ciad è però uno dei paesi più poveri dell’Africa eppure ospita 6 milioni di rifugiati. 

Mi sono successivamente spostato in Libia per provare a vivere una vita da persona normale, per trovare un lavoro e una formazione, e con la speranza e l’attesa che nel frattempo la guerra nel mio paese cessasse per farvi rientro.  

In Libia non sono stato visto come un essere umano, vivevo in un centro di detenzione dove subivo continui trattamenti disumani, in strada le persone mi derubavano in un loop di sofferenza dal quale non si poteva scappare. Il governo non era presente, non esisteva, anzi era un sistema mafioso finanziato dai governi europei.

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Ho quindi deciso di provare ad attraversare il Mediterraneo e andare sull’altra sponda, in Italia, per cercare una vita migliore. Ma la prima volta non ce l’ho fatta. Sono stato catturato in mare e mi hanno portato in un centro di detenzione sovraffollato con poco cibo e poca acqua dove sono rimasto per otto mesi, dove le persone morivano in continuazione. Poi ho provato una seconda e una terza volta a prendere il mare e scappare, ma sempre con lo stesso risultato.  

Nel 2020 con la pandemia e la guerra in Libia ho capito che non potevo più rimanere in quel Paese perchè non c’era possibilità di vita e quindi ho provato nuovamente ad attraversare il Mediterraneo, ma questa volta la guardia costiera italiana mi ha respinto e sono tornato nuovamente in Libia. Essendoci la guerra, mi hanno chiesto di arruolarmi nell’esercito libico, e dunque mi sono ritrovato nella stessa situazione che avevo lasciato in Sudan. 

In Libia e in Sudan quello che ho sperimentato è del tutto disumano ed è per questo che è necessario spiegare tutti i dettagli della nostra esperienza che riguarda migliaia di essere umani, persone che sono viste e percepite come non umane, considerate soltanto come fonte di profitto. Molte donne che ho conosciuto hanno subito varie cose che non starò qui a menzionare. Nessuno sta denunciando la violenza che abbiamo vissuto. 

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E’ in questo momento che avete deciso di far nascere il movimento Refugees in Libya?

Nell’ottobre 2021 il quartiere dove vivevo è stato accerchiato dalle milizie libiche e sono state prese persone, comprese le donne e i bambini, e sono state portate nei campi di detenzione. Molti rifugiati sono finiti in luoghi disparati ed erano in cerca di aiuto per denunciare una situazione terribile. Speravamo che i giornalisti potessero denunciare quanto stava accadendo e portare questi fatti di fronte alla Comunità internazionale, ma questo non stava avvenendo e non c’era la risposta di indignazione che ci aspettavamo. Perciò siamo andati noi al quartier generale di Unhcr, per richiedere una protezione effettiva ma la risposta è stata negativa. Abbiamo capito quindi che l’unico modo che avevamo per far conoscere la nostra situazione era l’autorganizzazione, e che era meglio lottare e morire piuttosto che essere sfruttati. 

Sono stata la prima persona ad andare sotto il quartier generale di Unhcr a Tripoli, poi piano piano sono arrivate altre persone: donne incinte e malate che nessuno stava aiutando. L’unica cosa che potevamo fare era stare lì seduti in sit-in ed è iniziata così la nostra protesta che è durata 3 mesi e 10 giorni. Le nostre richieste erano quelle di essere riconosciuti come esseri umani, sia da parte dell’Unione europea così come da parte del governo libico volevamo che ci venissero riconosciuti i nostri diritti umani. Ed inoltre chiedevamo di lasciare il Paese perché la Libia è un paese che non ci voleva e il nostro obiettivo era andarcene. 

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Migliaia di persone non vengono dunque riconosciute, bensì sono obbligate a subire repressione, sparatorie, uccisioni. Abbiamo vissuto senza la possibilità di avere cibo e servizi igienici, abbandonati a vivere in maniera disumana. Da parte della Comunità internazionale c’è stato uno scarso interesse, Papa Francesco e poche altre persone e organizzazioni si sono interessate della nostra situazione. Una di queste è Mediterranea Saving Humans che ha cercato di comprendere e sentire il nostro dolore e fungere da cassa di risonanza.

Nei giorni successivi le milizie libiche sono arrivate a prenderci, hanno sgomberato il sit-in e ci hanno portato via. Molte delle persone che protestavano davanti la sede di Unhcr sono state riportate nei campi di detenzione. Le autorità libiche hanno iniziato a cercarmi proprio perché ero io l’organizzatore di queste proteste contro il governo libico così come contro quello italiano. Hanno fatto circolare le mie foto e miei video al fine di cercarmi, molti miei fratelli sono stati sparati e uccisi … La quinta volta che ho provato ad attraversare il Mediterraneo sapevo che sarebbe stato il punto di non ritorno: o sarei morto annegando nel mare oppure sarei stato nuovamente catturato e riportato indietro dove le milizie mi cercavano e mi avrebbero ucciso. Però questa volta ce l’ho fatta e una volta arrivato qui non ho dimenticato i miei fratelli e le mie sorelle e le loro sofferenze, ed è per questo che da quando sono sbarcato viaggio in giro per l’Italia per tentare di comunicare con politici ed istituzioni riguardo alla situazione in Libia.

Di cosa ti sei reso conto in questi mesi di permanenza in Italia e qual è lo scopo di questi incontri?

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Le persone che arrivano a Lampedusa sono continuamente utilizzate come uno strumento da parte dei politici, in continuazione ascoltiamo brutte storie riguardo le persone migranti che arrivano e che vengono definite come invasori, criminali e stupratori…ma vi sembro tutto ciò? Il nostro obiettivo è che la società italiana capisca cosa sta succedendo nel Sud globale, cosa succede alle frontiere, le restrizioni, le violenze, la loro esternalizzazione verso altri paesi.  

Le società italiana ed europea devono comprendere qual è la situazione, devono chiedersi come mai il passaporto europeo ha così tanto potere e perché le persone europee hanno la libertà di movimento, di muoversi in diversi paesi e invece noi del Sud globale non abbiamo questo privilegio, le nostre terre sono considerate solo zone dove estrarre risorse. L’Italia deve sapere che ci sono persone che continuano a morire nel Mediterraneo e nel deserto del Sahel dove ci sono ingenti interessi economici europei, dove viene estratto il petrolio. 

La responsabilità di tutto questo non è solo individuale ma è collettiva. Riguardo alle elezioni che si sono tenute poco fa, il dibattito verteva molto sulla questione migratoria perchè prima del governo Meloni ci sono stati i decreti Salvini, prima quelli di Minniti e il memorandum di intesa con la Libia che noi consideriamo un atto di terrorismo. L’Italia sta deliberatamente uccidendo delle persone, lo fa finanziando qualcun altro, in questo caso il governo libico, per farlo al posto suo. 

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Il deserto del Sahel e il Mediterraneo sono ormai diventati dei cimiteri, la società europea e italiana non possono accettare questa situazione, noi non siamo numeri ma persone normali che sono in cerca di una vita migliore, siamo dottori, studenti, professori, futuri e possibili imprenditori che appunto continuano a morire nel deserto, nel mare, nei campi di detenzione. 

La società che rimane in silenzio approva tutto questo ed è per questo che dobbiamo chiedere conto alle autorità per questa situazione disumana. 

Come pensi di continuare la lotta contro i confini e contro il patto tra l’Italia e la Libia da questa parte del confine?

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Stiamo costruendo rete con le altre realtà con cui sono state fatte delle iniziative di protesta ad ottobre per denunciare il memorandum. A Milano, Napoli, Palermo e Roma e in altre parti di Europa, ci sono stati degli appuntamenti con l’obiettivo di denunciare questo sistema criminale.
L’obiettivo è quello di continuare ad andare in giro e di organizzare eventi e continuare a denunciare e sensibilizzare. Il 9 e 10 dicembre saremo a Ginevra in occasione della Giornata mondiale dei diritti umani con la Rete transnazionale “Solidarity with Refugees in Libya” Abbiamo convocato una due giorni di sit-in davanti alla sede di Unhcr. Dobbiamo chiedere ai governi un atto di responsabilità. Quando è scoppiata la guerra in Ucraina io mi trovavo in Libia e mi stavo nascondendo, e quando ho visto l’atto di solidarietà della società europea ed italiana nei confronti degli ucraini sono stato felice perché la solidarietà è connessa ad un atto di responsabilità. Ovviamente mi rendo conto che gli esseri umani percepiscono qualcosa solo quando è vicino e la guerra in Ucraina sembra più vicina geograficamente all’Europa rispetto a quello che sta succedendo nel Sahel o in altre parti dell’Africa. 

La differenza è che spesso la nostra Storia non viene raccontata.

Dobbiamo chiederci quali sono le cause della guerra in Libia, prima la Libia con Gheddafi era considerata un paradiso rispetto agli altri Paesi africani, poi la Nato ha distrutto tutto, questa situazione che sta avvenendo in Libia è una situazione che sta spaventando tutti i Paesi africani. L’Africa è un continente che non produce armi eppure i bambini vanno in giro con i kalashnikov al collo, queste armi sono prodotte e vendute dalla Germania, dall’Italia e dagli Stati Uniti.

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Infine dovremmo continuamente ricordarci del perché le persone vogliono migrare, spesso non lo fanno per una libera scelta ma sono forzate a farlo. Tutti noi siamo responsabili di quello che sta accadendo, dobbiamo dar conto degli atti di umanità che dobbiamo portare avanti, anche coloro che hanno degli impedimenti fisici possono fare qualcosa nel loro piccolo. Le persone che arrivano dal Mediterraneo non hanno bisogno di supporto materiale ma principalmente di supporto emotivo, bisogna ascoltare e chiedere a loro quello che vogliono e di cosa hanno bisogno e quali sono i loro sogni”.

Una testimonianza straordinaria di dolore, dignità, voglia di vita e di riscatto. E sono in tanti come David Yambio. 

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