Lettera da Israele alla diaspora ebraica: schierarsi è un dovere, il silenzio è complicità

Un gruppo di attivisti israeliani denuncia le sistematiche violazioni dei diritti umani in Cisgiordania

Lettera da Israele alla diaspora ebraica: schierarsi è un dovere, il silenzio è complicità
Militari israeliani arrestano in militante per i diritti umani in Cisgiordania
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13 Febbraio 2022 - 17.42


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Ci sia consentito un gioco di parole: quella che segue è una Lettera che va presa alla lettera. Per chi ne è il mittente. Per i destinatari. E per i suoi contenuti.

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La Lettera

“A: Le comunità ebraiche di tutto il mondo

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Oggetto: clamorose violazioni dei diritti umani in Cisgiordania 

Cari amici,

il nostro gruppo comprende attivisti israeliani per i diritti umani operanti nelle zone rurali (denominate Area C) della Cisgiordania e cittadini israeliani preoccupati per la situazione ivi esistente. Le evidenze di cui siamo testimoni ogni giorno confermano che il governo di Israele ha preso di mira quelle zone in vista della loro futura annessione, e a tal fine ha adottato una serie di politiche miranti a scacciare dalle terre il maggior numero possibile di agricoltori palestinesi e a spingerli a trasferirsi nei centri urbani delle Aree A e B. Fra queste politiche vi sono: il divieto totale di edificazione; gli sfratti forzati; la demolizione di abitazioni e di strutture destinate all’agricoltura; le confische di terreni; il blocco e la distruzione di strade; la limitazione dell’accesso alle risorse idriche; le intimidazioni; le invasioni notturne di abitazioni private; gli arresti arbitrari, e così via. Lo scopo di tutto questo è chiaro: espropriare la maggior porzione possibile della popolazione palestinese dell’Area C, che Israele intende annettersi. 

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In questi ultimi anni abbiamo assistito a una drammatica escalation delle violenze da parte dei coloni e delle forze armate. Ormai queste si verificano quotidianamente e rendono insopportabile la vita dei palestinesi. I coloni, difatti, abbattono o incendiano piante di ulivo, uccidono pecore, invadono abitazioni, distruggono beni e aggrediscono persone. Spesso, per giunta, vediamo i soldati restare a guardare mentre i coloni aggrediscono agricoltori o pastori palestinesi. Per giunta i militari partecipano sovente a tali attività, arrestando palestinesi che tentano di difendersi dai coloni.

Siamo consapevoli che questa lettera potrà suscitare disagio e forse anche ostilità, ma le Forze Israeliane di Difesa – che nei Territori esercitano la sovranità effettiva – attuano la politica del governo israeliano e sono le esecutrici di quest’annessione de facto. Come si evince dal nome stesso del nostro gruppo, noi siamo quelli che espongono l’angosciosa e penosa realtà testimoniata da attivisti, senza filtri e nella forma più schietta.

E’ triste constatarlo, ma la maggioranza degli israeliani sembra avere la capacità di “ignorare” i crimini commessi in suo nome dal suo governo e dalle forze armate. La copertura di quanto avviene nei Territori occupati da parte dei media israeliani è assai scarsa, il che rende agevole al pubblico israeliano voltarsi dall’altra parte. Si intensificano i segnali che la situazione tesa nei Territori occupati sia sul punto di esplodere, dando luogo a una nuova ondata di violenze. L’unica speranza di fermare questo deterioramento sta nell’intervento della comunità internazionale e in particolar modo degli Stati Uniti.

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Da anni, sotto i nostri occhi stupefatti e delusi, gli Stati Uniti, paladini della democrazia e dei diritti umani, assicurano il loro sostegno diplomatico, finanziario e militare allo Stato di Israele benché Israele commetta gravi violazioni dei diritti umani e continui a porre in atto politiche che gli Stati Uniti hanno pubblicamente definito illegali e deleterie per la causa della pace e dell’ordine mondiale. Non meno deludenti sono gli altri paesi occidentali che, pur mentre professano il massimo impegno a favore dei diritti umani, si astengono dal prendere qualsiasi misura contro Israele, limitandosi a occasionali, flebili proteste verbali.

Sappiamo che voi condividete la nostra critica alle politiche attuate dal governo di Israele nei Territori occupati e alle gravi violazioni dei diritti umani che vi vengono perpetrate. Non siamo certi, invece, che condividiate anche il senso di urgenza e di disperazione che avvertiamo noi, che di queste realtà siamo testimoni ogni giorno, come pure la nostra ansia per il carattere che assumerà Israele se queste tendenze proseguiranno. Noi siamo israeliani i quali, pur non avendo ancora rinunciato alla possibilità di “esercitare un’influenza dall’interno”, sentono però il dovere di cercare appoggi all’estero. Desideriamo lavorare insieme a voi per esercitare pressioni sui vostri rispettivi governi affinché cessino di distogliere lo sguardo dai crimini dell’occupazione dei Territori e passino a esercitare vere pressioni su Israele, tali da indurlo a rispettare il diritto internazionale e i diritti umani e a desistere da ogni vessazione ai danni dei palestinesi”.

Il Presidente 

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Guy Hirschfeld

Prospettiva-Bantustan

Hagai El-Ad,  è il direttore esecutivo di B’Tselem, l’ong israeliana che monitorizza la situazione nei Territori palestinesi occupati  in materia di diritti umani.

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Questo è il suo j’accuse:” Restringere il conflitto  è la calda merce politica israelo-palestinese mainstream di questi tempi.  Già nella sua primissima intervista come primo ministro designato, nel giugno di quest’anno, il futuro premier israeliano Naftali Bennett ha proclamato che ‘ridurre il conflitto’ era la sua ‘filosofia’ per gestire il futuro dei palestinesi.  Alla fine di agosto, il nuovo premier ha portato questa stessa merce alla Casa Bianca nel suo primo incontro con il presidente americano Joe Biden: crescita continua degli insediamenti per gli israeliani, senza libertà, diritti o indipendenza per i palestinesi e certamente senza negoziati; il tutto senza annessioni formali e una migliore “qualità della vita” per i palestinesi obbedienti.  E questa settimana, nel suo discorso inaugurale davanti all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, Bennett ha ulteriormente ridimensionato la questione – al punto di non menzionarla nemmeno. In un’intervista al New York Times pochi giorni prima del suo primissimo incontro come primo ministro con il presidente Biden, Bennett ha descritto il suo governo come impegnato a ‘trovare il terreno di mezzo in modo tale che noi  [israeliani] possiamo concentrarci su ciò su cui siamo d’accordo”. In quell’intervista, Bennett ha spazzato via le documentate da parte di gruppi di diritti umani palestinesi, israeliani e internazionali, che la politica israeliana, dalle quali emerge con nettezza che  la sua ‘terra di mezzo’- è apartheid. La visita di Bennett a Washington è stata considerata un successo. Solo pochi giorni fa, nel suo primo discorso come presidente davanti all’Assemblea Generale dell’Onu, Biden ha detto, a proposito di una soluzione a due Stati: ‘Siamo molto lontani da quell’obiettivo’. Questa è la soluzione dei due Stati in cui lui continua a credere e che Bennett rifiuta apertamente. Verso la fine del suo discorso all’Assemblea generale delle Nazioni Unite, Biden ha parlato in modo commovente del coraggio delle persone in Bielorussia, Birmania, Siria, Cuba, Venezuela, Sudan, Moldavia e Zambia, nella lotta per la democrazia e la dignità umana. In qualche modo, in questa parte del suo discorso, i palestinesi sono stati cancellati. Infatti, sembrano essere ‘molto lontani’ da un presidente americano che osa identificarsi con la loro causa, la loro libertà e la loro lotta per la dignità umana. Il modello di lunga data di Israele per riuscire a farla franca con l’apartheid senza subire conseguenze internazionali si basava di solito sul fatto di pagare il necessario servizio verbale ai ‘negoziati’ e all’interminabile ‘processo di pace’, mentre si caratterizzava attentamente per un personaggio digeribile a livello internazionale – pensate a Shimon Peres sotto Ariel Sharon – per gestire il marketing all’estero. Anche Netanyahu ha seguito attentamente questo copione: si pensi al suo discorso di Bar Ilan, fino all’ingresso di Donald Trump alla Casa Bianca. Ma ora, con Trump fuori dalla Casa Bianca (almeno fino al 2024), è diventato essenziale per Israele ricalibrare la sua immagine. Dopo quattro anni di aperto allineamento con Trump – e con il trumpismo – Israele aveva bisogno di un non-Netanyahu per prendere le distanze da quei residui tossici. In questo senso chiave, le élite politiche di Israele hanno abilmente soppesato i chiari benefici di avere un non-Netanyahu come primo ministro – persino un ex leader dei coloni a capo di un governo di coalizione molto insolito – per gestire meglio un presidente democratico alla Casa Bianca. Ciò che è notevole in questo stato di cose è che semplicemente non essendo guidato da Netanyahu, Israele riesce a riavviare la sua immagine internazionale senza alcun cambiamento sostanziale nella politica. Il suo attuale premier non-Netanyahu non ha nemmeno bisogno di spruzzare in giro il buon vecchio lip service – infatti egli, molto sinceramente, dichiara apertamente che non ci saranno negoziati e nessuna indipendenza palestinese. Come può essere digeribile a livello internazionale? Semplicemente perché Bennett non è Netanyahu. Proprio come con la ‘crisi’ del 2020 riguardante la potenziale annessione formale, la preoccupazione qui non riguarda una politica significativa, la libertà o la dignità umana. Si tratta solo di apparenze e negabilità. L’annessione formale era una falsa pista – Israele fa quello che vuole ovunque in Cisgiordania a prescindere – ma se fosse passata attraverso la formalizzazione, sarebbe stato un enorme imbarazzo per l’UE (e per un presidente americano non-Trump) in quanto avrebbe esposto la riluttanza internazionale a ritenere Israele responsabile. Inoltre, avrebbe pubblicamente sgonfiato l’aria del palloncino della soluzione dei due Stati che la comunità internazionale ha gonfiato con vuota retorica per decenni. Lo stesso vale per quanto riguarda un Netanyahu contro un non-Netanyahu che continua a guidare il governo di apartheid di Israele sui palestinesi: si consideri quanto sarebbe stato politicamente più complicato per il presidente Biden accettare il no-negoziati-più-insediamenti da un primo ministro Netanyahu. Ma da un non-Netanyahu? Facile. E nella realtà, sul terreno? I palestinesi sono stati per decenni testimoni – e hanno lottato contro – l’effettiva riduzione delle loro terre, libertà e diritti. Sanno fin troppo bene che ‘restringere il conflitto’ – cioè permettere a Israele di continuare con le sue implacabili politiche contro di loro finché il furto delle loro terre non viene formalizzato attraverso l’annessione ufficiale – significa un ulteriore restringimento del loro mondo.  Ridotto fino a che punto? Da qualche parte tra le dimensioni di un Bantustan e una cella di prigione: i palestinesi obbedienti potrebbero vedere il loro Bantustan permesso di migliorare economicamente; quelli disobbedienti – Israele rifiuta qualsiasi forma di opposizione o protesta palestinese – dovrebbero aspettarsi di affrontare misure che vanno dal rifiuto dei permessi, al carcere, alla fucilazione. Mentre gli insediamenti continuano a espandersi e le case palestinesi continuano a essere demolite, mentre si costruiscono infrastrutture permanenti che aprono la strada a un milione di coloni israeliani in Cisgiordania, mentre Gaza rimane sotto blocco e i palestinesi continuano a essere uccisi impunemente dalle forze di sicurezza israeliane – ‘restringere il conflitto’ sono le parole magiche che un primo ministro di Israele non-Netanyahu deve articolare affinché la comunità internazionale accetti una Palestina sempre più piccola. La ‘terra di mezzo’ israeliana di milioni di palestinesi – metà della popolazione che vive sotto il controllo di Israele – che sopportano una forma o l’altra di sottomissione, con solo la metà ebrea della popolazione che ha pieni diritti (cioè l’apartheid) ha così ottenuto un prolungamento della vita. È bastato che un non-Netanyahu lo ribattezzasse come una filosofia di ‘contrazione del conflitto’ . Questa ridenominazione di idee stantie ora rigurgitate – pensate alla ‘pace economica’ o alle ‘misure di rafforzamento della fiducia’ – fornisce ai politici delle capitali occidentali una rinnovata negabilità per ciò che stanno effettivamente facendo: continuare a sostenere l’apartheid israeliana. Ma le persone di coscienza non riusciranno mai a non vedere i blocchi di cemento, le sbarre e i muri che Israele impone a metà della popolazione tra il fiume e il mare.  conclude il direttore di B’Tselem.

Il “cuore” ideologico dello “Stato” dei coloni è a Hebron.

Le categorie della politica non possono, da sole, spiegare perché ottocento coloni siano disposti a vivere blindati, e sfidare duecentomila palestinesi. Perché a spiegarlo è altro: è l’essere convinti che quella presenza ha una valenza messianica, perché qui, ti dicono, è stato incoronato Davide, perché questa è “Eretz Israel”, la Sacra Terra d’Israele, e abbandonare il campo significherebbe tradire Dio, la Torah, il popolo eletto. Hebron racconta di una bramosia di possesso assoluto che esclude l’altro da sé, ne cancella storia e identità, in nome di una “Fede” che non ammette compromessi. Nello “Stato dei coloni” non c’è partita: qui non c’è spazio per pacifisti, sinistri e sionisti. Qui il sionismo è morto. E con esso anche la legalità internazionale. Qui vale solo il “diritto” del più forte. Di chi si sente al di sopra della legge. Che gode di protezioni ai massimi livelli governativi e anche in quelli militari. Sono i coloni di cui parla la Lettera. 

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I destinatari sono le comunità ebraiche di tutto il mondo. Sarebbe bene che rispondessero. Nel merito. Il silenzio sarebbe anch’esso una risposta. Complice. 

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